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REVIEWSLE RECENSIONI
28/03/2023
The Lathums
From Nothing to a Little More
Meno sorprendente dell'esordio, il secondo album dei britannici Wigan è comunque un lavoro riuscito, che trova la propria forza nella capacità dei Lathums di scrivere irresistibili inni da stadio.

Come recita quel vecchio andante? Il secondo disco è il più complesso nella carriera di un artista. Perché è quello che fa capire se ci troviamo di fronte a una meteora oppure, nello specifico, a un gruppo capace di confermarsi, di scrivere altre belle canzoni da aggiungere a quelle pubblicate al debutto. Ovviamente, il prius logico è che l’esordio sia stato di livello, e How Beatiful Life Can Be, primo album dei Lathims, band britannica originaria di Wigan, lo era. Dannatamente bello.

La domanda, dunque, sorge spontanea: sono riusciti i nostri eroi a confermarsi a quei livelli? La risposta è si, anche se qualche riflessione dev’essere necessariamente fatta. In primo luogo, è abbastanza evidente, fin dal primo ascolto, che l’effetto sorpresa è svanito. Se ogni singola canzone di How Beautiful Life Can Be sortiva l’effetto “wow!”, per quel continuo esplicitare collegamenti con un certo pop chitarristico anni ’80 (Housemartins e Smiths, in primis), alla seconda prova, i Lathums cercano di imboccare nuove vie, e pur mantenendo un suono perfettamente riconoscibile (quella voce e quella chitarra, per quanto derivative, sono ormai un marchio di fabbrica), hanno sfumato, almeno un po’, i propri riferimenti stilistici.

L’idea è quella di diversificare l’approccio compositivo, tentativo riuscito solo in parte, visto che molti brani richiamano, per struttura e idee, quelli del primo album. Tuttavia, il songwriting, anche se meno scintillante, risulta essere particolarmente efficace quando il quartetto di Wigan punta sul piatto forte della casa, e cioè su quei ritornelli innodici, perfetti per far cantare a squarciagola tutto uno stadio.

Anche il gusto per la melodia è rimasto intatto, anche se, talvolta, arrangiamenti un po’ leziosi, privano di slancio canzoni che, altrimenti avrebbero avuto ben altra forza emotiva. E’ il caso, ad esempio, di "Turmoil", una ballata pianistica in odore Beautiful South, che si perde ben presto in uno zuccherino arrangiamento da karaoke, che lascia, per così dire, perplessi.

A parte qualche passo falso, il disco è, però, piacevolissimo, e trova la sua vetta nell’uno due iniziale costituito da "Struggle" e "Say My Name", due coinvolgenti inni da stadio dalla melodia cristallina, il primo un doloroso crescendo su un amore non corrisposto (“ti amavo, ma non ti importava, avevo bisogno di te, ma tu non c'eri, e il mondo si è tirato indietro e mi ha costretto a inginocchiarmi”), il secondo trainato da un riff di chitarra irresistibile e da una batteria galoppante. Una formula vincente che si ripresenta anche nella tiratissima "Facets" (qualcuno ha detto Smiths?) o nelle accelerazioni che innervano di tensione la malinconia della splendida "Crying Out", altro vertice emotivo del disco.

Altrove, i Lathums rendono omaggio alle proprie fonti d’ispirazione, come avviene nella grazia sixties di "I Know Pt.1" o nella sbarazzina e divertente "Lucky Bean" (splendido l’arrangiamento di fiati), che richiamano alla mente, nemmeno tanto velatamente, gli Housemartins. E se "Land And Sky" suona un po’ fiacca e senza pathos, gli otto minuti della conclusiva "Underserving", ballata elettro-acustica intrisa di emozione, sono, invece, la coraggiosa conclusione con cui Alex Moore mette a nudo i suoi sentimenti e i suoi pensieri, rivolgendosi direttamente ai fan e ringraziando tutti coloro che hanno accompagnato il viaggio dei Lathums “from nothing to a little more”.

In definitiva, questa seconda prova, pur palesando qualche difetto rispetto al folgorante esordio, è un disco riuscito, che riesce ad amalgamare alla perfezione malinconia e tormento con l’ottimismo di un tiro pop rock che, quando riesce, è ancora in grado di fare scintille. Forse, semplicemente, quello che più conta, è che questi quattro ragazzi, nel bene e nel male, sono rimasti loro stessi, consapevoli delle proprie origini e orgogliosi di dove sono arrivati. Capaci di continuare a scrivere canzoni, belle o brutte che siano, che sgorgano direttamente dal cuore. E l’onestà, alla fine, paga sempre.