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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
19/04/2023
Live Report
Matt Elliott, 16/04/2023, Arci Bellezza, Milano
Artista unico, Matt Elliott, cantore di una bellezza senza tempo che sarebbe davvero da augurare a chiunque. Qui il live report dell'ultima data del suo tour europeo.

Quando arrivo sul posto Delvento ha iniziato a suonare da pochi minuti e la sala risulta già bella gremita, rendendo non ottimale la visibilità. La Palestra Visconti è una location decisamente suggestiva ma il palco è troppo basso, per fortuna all’arrivo dell’headliner i presenti, come per un tacito accordo, si siedono per terra rendendo il concerto decisamente più fruibile.

Non conoscevo Jacopo Genovese, artista di Messina, classe 1993, che pubblica singoli come Delvento dal 2018 ma che non ha ancora esordito con un vero e proprio disco. La sua proposta non è dissimile da quella del main act della serata: anche lui è da solo sul palco, anche lui con la chitarra classica, anche lui fa abbondante uso di loop station per sovrapporre molteplici strati sonori alle sue composizioni. Decisamente diversa è invece la scrittura, nella quale non manca una certa solarità mediterranea, e dove lo spettro dei nostri cantautori, De André ma soprattutto De Gregori, risulta particolarmente evidente.

Lui è simpatico, da come presenta i pezzi si capisce che sono parte di lui, che scaturiscono direttamente dal suo vissuto, tanto che è difficile definirli razionalmente. È un bel flusso di emozioni e suggestioni ma melodia e forma canzone appaiono nel complesso ben studiate, in generale è un’esibizione che convince. Il disco, se mai arriverà, sarà senza dubbio un bel punto fermo su cui esprimere un giudizio più ponderato.

 

Matt Elliott dalle nostre parti è di casa, ci è passato numerose volte in passato e a questo giro le date nella penisola sono addirittura quattro. Questa di Milano è l’ultima anche dell’intero tour europeo e si avverte in effetti una certa voglia di celebrare, oltre che una certa stanchezza (prima di iniziare a suonare ci racconta che l’allergia primaverile gli ha dato parecchio fastidio in questi giorni).

C’è una sorta di peculiare contrasto tra l’uomo che abbiamo di fronte e le canzoni che da anni abbiamo imparato ad amare: a dispetto delle cose che scrive, sempre di umore cupo e malinconico, a sconfinare talora nella depressione pura, quello che si presenta sul palco della venue milanese è un artista tutto sommato rilassato, certamente non solare ma a suo agio e contento di essere lì, particolare dimostrato anche dal fatto che nonostante avesse già sforato sul tempo massimo della sua esibizione (che sulla carta sarebbe dovuta durare un’ora e un quarto) ha deciso di regalarci altri due brani, per un totale di una ventina in più abbondante di musica.

 

È in generale un Elliott particolarmente ispirato: The End of Days, uscito appena poche settimane fa, è un passo avanti notevole anche rispetto al già splendido Farewell to All We Know del 2020. Che possa trattarsi addirittura del suo miglior lavoro di sempre, superiore persino all’ultra acclamato Drinking Songs, non è un’affermazione così assurda. Anche perché si tratta di un lavoro nel complesso più accessibile, che porta a compimento il passaggio dalle sperimentazioni elettroniche in chiave Post Rock che caratterizzavano il suo lavoro coi Third Eye Foundation (e che ancora erano molto presenti su quel suo primo disco da solista) verso un cantautorato Folk dalle forme dilatate e dalle atmosfere funeree, con influenze varie che spaziano dal Jazz alle forme della musica popolare dei primi decenni del ‘900. In quest’ultimo capitolo, soprattutto, la forma canzone è maggiormente presente, le melodie sono nel complesso di facile presa e, particolare non trascurabile, c’è un utilizzo maggiore del pianoforte e soprattutto del sassofono, strumento che Elliott suona alla pari della chitarra e che in questo tour ha deciso di portare anche sul palco.

Dal vivo il cantautore britannico costruisce le sue canzoni strato su strato, aiutandosi con la loop station: parte dalla chitarra, che suona con tocco leggero ed elegante, ed alterna le parti vocali a quelle di sax, armonizzando le varie tracce e creando un vero e proprio muro di suono, che cresce o cala di intensità a seconda dell’umore che trasmette quella determinata parte del brano.

Sono composizioni molto lunghe, le sue, la maggior parte supera i dieci minuti e tanto spazio è dedicato alla ripetizione degli stessi nuclei melodici. Il fascino però sta tutto qui: la profondità e l’espressività della sua voce, unitamente alle linee struggenti che tira fuori dal sax (molto più presente della chitarra nell’economia complessiva del concerto) sono ingredienti da far rimanere a bocca aperta. Non è un caso che in sala aleggi un silenzio a tratti irreale, che è frutto della comprensione di ciò che sta accadendo, della coscienza di aver di fronte un artista e un uomo che ci sta facendo dono di qualcosa di davvero prezioso per sé.

Pochi i brani eseguiti all’interno dell’ora e mezza abbondante che abbiamo sentito, ma è davvero difficile indicare i momenti migliori. Sicuramente il nuovo album ha detto la sua, con l’iniziale “January Song”, la voce aggiunta per ultima, quasi come un tocco finale dopo la costruzione di un paesaggio sonoro gelido e desolato, cantando direttamente dal microfono del sax. E poi la title track, avvolta di malinconica dolcezza, quella in cui l’espressività vocale ha raggiunto il suo apice, in uno struggente invito alla persona amata a rimanere assieme, nonostante la consapevolezza che tutto sta per finire. Bellissima anche “Flowers for Bea”, delicata e drammatica elegia per una persona cara scomparsa.

Spazio anche ad un’affascinante esecuzione de “Il galeone”, la canzone che Paola Nicolazzi ha scritto nel 1974 a partire dai versi di Belgrado Pedrini; si tratta di un brano simbolo della tradizione anarchica italiana, l’avevano interpretata anche i Ronin nel loro Lemming (2007) e di solito non manca quando Matt passa dalle nostre parti, ormai la canta in maniera davvero nitida, con una dizione, al netto di qualche difetto di pronuncia, assolutamente comprensibile.

 

Dovessi scegliere, indicherei probabilmente nell’epica tragica di “The Kursk” il mio personale highlight: già brano simbolo di Drinking Songs, questa suite dedicata alla tragedia del sottomarino russo, arenatosi nel 2000 provocando la morte dei 118 uomini del suo equipaggio, ha goduto di una sera superlativa, dalla iniziale prima parte strumentale, ai brevi, drammatici, versi cantati, sfociando in un crescendo ad alta intensità dove ancora una volta il sax è stato protagonista.

Emozionante anche il finale, con un riuscito medley tra “The Guilty Party” e “I Will Haunt You in Your Sleep” ed una “Dust Flesh and Bones” decisamente carica.

Artista unico, Matt Elliott, nel panorama musicale odierno ce ne sono pochi che concepiscono la canzone d’autore come fa lui. Forse troppo ostico per arrivare al grande pubblico, ma allo stesso tempo cantore di una bellezza senza tempo che sarebbe davvero da augurare a chiunque.