In the space between our cities, a storm is slowly forming. Something eating up our days, I feel it every morning. Destination, destination.
C’è qualcosa di terribilmente decadente e non confortante nei testi dei Church, ma al tempo stesso le melanconiche trame intessute per avvolgere tali funeree immagini e tristi presagi portano conforto al cuore, si tratta di situazioni che solo ascoltando e interiorizzando la musica con intensità si possono capire e spiegare: la condivisione di uno stato d’animo in pena permette di trascorrer meglio i momenti difficili, sapendo che c’è chi li ha vissuti (o li sta vivendo) in quel preciso momento, e che esiste pure un metodo per superarli, attraversandoli con coraggio e magari sperando di acquisire saggezza ed esperienza proprio da quei tragici frangenti.
Nello spazio tra le nostre città si sta lentamente formando una tempesta. Qualcosa che consuma i nostri giorni, lo sento ogni mattina. Destinazione, destinazione.
Starfish nasce da uno stato di malessere, infatti, e da una condizione insopportabile che improvvisamente come una folata di vento violenta e inaspettata apre la porta dell’ispirazione. L’opener "Destination" ne è fulgido esempio, e oltre a un modus vivendi, alla consuetudine di vedere più oscurità invece di luce nell’ottica delle cose, traspare la difficoltà di una nuova avventura, affrontata per dare linfa rigenerante al gruppo dopo il comunque ottimo Heyday, pubblicato nel 1985. Così, due anni dopo, Steve Kilbey e compagni, mollati senza troppi rimorsi dai responsabili della EMI, i quali non vedono in loro future potenzialità, firmano per l’Arista Records e volano a Los Angeles per registrare il seguito, un disco che si discosta dalle orchestrazioni stratificate del precedente e si sviluppa in una versione maggiormente scarna e semplicistica degli arrangiamenti, senza perdere un briciolo di avvenenza e profondità.
Tre composizioni come "Lost", "Reptile" e "North, South, East and West", insieme alla già menzionata "Destination" portano l'impronta dei volti, dei paesaggi e dell’esistenza quotidiana nella nuova, temporanea casa del gruppo. Lo stress di vivere negli Stati Uniti influenza le loro performance e li fa sentire fuori posto, simili a pesci fuor d’acqua, come dichiarato proprio da Kilbey, principale vocalist e bassista dei Church: “Nessuno di noi si sentiva a suo agio. Ci mancava l’Australia, io personalmente non sopportavo il luogo in cui vivevo, odiavo la guida a destra e il fatto che non ci fosse mai nessuno che camminasse per strada. Sentivo una forte mancanza e tutte queste strane e brutte sensazioni provate sono convogliate in musica”.
Anche i chitarristi Marty Willson-Piper, Peter Koppes e il batterista Richard Ploog soffrono questa situazione e la loro idea di incidere pezzi il più possibile dinamici, dall’atmosfera live a fare da contraltare al triste mood losangelino si scontra con la mancanza del senso di “presenza” di un vero concerto e con la logica di produzione di Waddy Watchel, storico turnista e songwriter statunitense (le sue collaborazioni vanno dai Rolling Stones, Iggy Pop e Warren Zevon a Linda Ronstadt, James Taylor e Stevie Nicks) e Greg Ladanyi (Jackson Browne, Don Henley e la Jeff Healey Band tra i suoi prediletti). Ad ogni modo la sfida tra gli istrionici anticonformisti australiani e i disciplinati ragazzi della West Coast termina in un pareggio, anzi in una vittoria per entrambi. Se da un lato si verificano scontri di personalità e si disquisisce sul suono degli strumenti, sull’approccio al canto e al tipo di struttura dei brani fino alla moralità e l’etica del lavoro, dall’altro queste tensioni spingono a tirare fuori il meglio di se stessi. Dalla tecnica alla sociologia, le due parti in causa non si fanno mancare niente nella diatriba, mentre, come spesso accade nel mondo incantato delle sette note, si crea una magia indissolubile nelle canzoni, anche grazie a quei contrasti.
La registrazione e l’arrangiamento di "Under the Milky Way" traggono linfa da tali contraddizioni e la canzone, così come plasmata e ultimata durante quelle sessioni, rappresenta in assoluto uno dei picchi di creatività dei Church. Il motivo, scritto tempo prima da Kilbey e dall'allora fidanzata Karin Jansson, diventa un successo di classifica nella natia Australia e raggiunge la posizione numero 24 della Billboard Hot 100 (e numero 2 della classifica Mainstream Rock) in America. Rimane la hit più conosciuta della formazione di Sidney e ha davvero una storia particolare, poiché sono il manager e i produttori a carpirne il valore e a dettarne la struttura sonora. Ironia della sorte Ploog, l'unico membro della band ad aver mostrato subito entusiasmo e supporto per la canzone, è ritenuto incapace di fornire una prestazione che sia all’altezza e viene coinvolto lo storico session man Russ Kunkel per aggiungere la batteria e le percussioni. Il pezzo è immediatamente riconoscibile grazie al robusto suono della chitarra acustica a 12 corde e alla sua melodia; pure l'assolo è molto suggestivo, costruito con un E-bow su una Fender Jazzmaster e registrato sul Synclavier di "Awesome Wells", a riprodurre un suono che ricorda una cornamusa. E poi ci sono le parole, un misto di seduzione e mistero, in grado di creare un meraviglioso senso di universalità tramite immagini insolite, “A volte, quando questo posto si svuota, Il suono del loro respiro svanisce con la luce. Penso al fascino senza amore sotto la Via Lattea stasera”.
Tutto l’album è comunque di alto livello, dalla tiratissima "Blood Money" alla geniale rockeggiante "Spark", ben interpretata da Willson-Piper, un mix di ferocia post punk e new wave alla Bauhaus con i Television nel mirino, ma un altro piccolo capolavoro è "Antenna", potente valzer chitarristico illuminato dalla maestria di un ospite speciale, il compianto David Lindley al mandolino. Il finale non lascia spazio a riempitivi, prosegue nei suoi intenti senza cadute di tono con "New Season", ballata dreampop midtempo accarezzata dalla voce di Koppes, e la carica conclusiva neopsichedelica dark di "Hotel Womb", un'esplorazione -non priva di doppi sensi- dell'idea di cercare conforto, sicurezza e rifugio in un santuario che si trova all'interno di se stessi. L'immagine di un "grembo d'albergo" funge da metafora del luogo di tranquillità e salvezza bramato dal protagonista.
“In Australia si prendeva un taxi, si andava in studio, si lavorava un po' e poi si tornava a casa. A Los Angeles, invece, eri più concentrato sull'intera faccenda per tutto il tempo. Eravamo sempre insieme, vivevamo l’uno accanto all’altro in questi appartamenti, con anima e corpo dedicati all’opera e Starfish è il risultato di questo. Ci sono pochissime sovraincisioni. La maggior parte è stata suonata sul momento, con le tastiere del turnista Greg Kuehn sovente ad accompagnarci con discrezione nel percorso sonoro. E poi, quando sei un ragazzo in una rock band, non ti chiedi cosa succederà tra 30 anni, pensi che sarai giovane per sempre”.
Sono le riflessioni di Steve Kilbey del 2018 ancora una volta a chiarire quella strana alchimia creatasi esattamente tre decadi prima, nell’anno che vede i “ragazzi” di Sidney rappresentare dal vivo il disco nella sua interezza, dopo svariate vicissitudini, cambi di line-up e tentativi di tornare a un successo mai ritrovato nella stessa dimensione di questo album epocale. Starfish rimane senza ombra di dubbio la loro pietra miliare, nato sotto una cattiva stella, colmo di contrasti, depressione e voglia di scappare da una situazione poco coinvolgente, ma, potere e miracolo della musica, anche nelle condizioni più avverse può nascere una gemma, può crescere una pianticella da cui sbocceranno fiori colorati e profumati che daranno un senso alla sofferenza impiegata per farli nascere.