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REVIEWSLE RECENSIONI
Bidin' My Time
Chris Hillman
2017  (Rounder Records)
AMERICANA/FOLK/COUNTRY/SONGWRITERS
8/10
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01/11/2017
Chris Hillman
Bidin' My Time
Coloro che, comprensibilmente, coltivavano qualche dubbio sulla vitalità di Chris, troveranno modo di ricredersi fin dal primo ascolto: Hillman sta bene, anzi benissimo, tanto che Bidin’ My Time può essere considerato il suo miglior disco di sempre

Chris Hillman non è solo un grande artista, ma è soprattutto un pezzo di storia del rock a stelle e strisce. La militanza nei Byrds e nei Flying Burrito Brothers, poi quella a capo della Desert Rose Band e i dischi suonati con gli amici di sempre, Roger Mc Guinn e Gene Clark, sono tutte pagine imprescindibili per coloro che vogliono comprendere, o semplicemente amano, la musica americana. Una carriera straordinaria, continuata anche in solitaria, con album centellinati nel tempo, magari non tutti bellissimi, ma comunque sempre degni nota. Erano dodici anni, esattamente da The Other Side (2005), che Chris non entrava in studio per registrare un nuovo full lenght, e l’attesa era tantissima, soprattutto per capire quale fosse lo stato di forma e cosa avesse ancora da dire un veterano, ormai arrivato alla veneranda età di settantadue primavere. Coloro che, comprensibilmente, coltivavano qualche dubbio sulla vitalità di Chris, troveranno modo di ricredersi fin dal primo ascolto: Hillman sta bene, anzi benissimo, tanto che Bidin’ My Time può essere considerato il suo miglior disco di sempre. La voce, prima di tutto, è di una freschezza inaspettata, come se il tempo si fosse dimenticato che quelle corde vocali sono gravate da più di mezzo secolo di usura. E poi il suono, che è proprio quel suono, byrdsiano fino al midollo, limpido, cristallino, solare. Anche perché, Chris ha voluto al suo fianco i sodali dei giorni di gloria, Roger McGuinn e David Crosby, che hanno costituito il nocciolo pensante di quel jingle jangle reso immortale da dischi come Fifth Dimension (1966) e Younger Than Yesterday (1967). C’è un altro aspetto, però, che fa di questo disco una sorta di instant classic, qualcosa di cui ci ricorderemo con nostalgia anche negli anni a venire: a produrre c’è Tom Petty (e in studio anche gli Heartbreakers: Mike Campbell, Benmont Tench e Steve Ferrone), che nelle dodici canzoni in scaletta ha lasciato una delle ultime tracce del suo passaggio su questa terra, chiudendo così il cerchio di una carriera che proprio il suono dei Byrds aveva contribuito a ispirare. Fatte queste premesse, che sono poi anche la sostanza della musica contenuta in Bidin’ My Time, veniamo alle canzoni, che Hillman ha scelto con cura, evitando ogni ovvietà, e che la backing band, di cui abbiamo appena raccontato, suona con artigianale maestria. Brividi, quando il disco si apre con Bells Of Rhymney di Pete Seeger, già reinterpretata dai Byrds su Mr Tambourine Man (1965), e qui riproposta in una versione che non fa rimpiangere quella di cinquant’anni fa (ottimo lavoro di Benmont Tench al pianoforte); e brividi, quando il disco si chiude con Wildflowers, capolavoro di Tom Petty, che Hillman rilegge meravigliosamente in chiave bluegrass, accentuandone l’anima acustica e il mood bucolico. In mezzo a questi due splendidi brani, un filotto di gioiellini, tra cui spiccano per intensità il country della title track (a firma Hillman e Hill), una versione magistrale di She Don’t Care About Time dell’amico Gene Clark (gli echi byrdsiani si sprecano) e Restless, nostalgico country rock, in cui sono Benmont Tench e Mike Campbell a mettersi in bella evidenza. Un disco intenso ed emozionante, dunque, che segna un insperato ritorno a livelli altissimi per Chris Hillman e che, purtroppo, costituisce anche il malinconico commiato di Tom Petty. Che la sua Wildflowers, poi, sia stata inconsapevolmente posta a fine scaletta, suona proprio come un commosso addio, che sigilla un grande disco e, forse, la fine di un’intera epopea.