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REVIEWSLE RECENSIONI
12/11/2017
Joe Henry
Thrum
Lentamente, affiora un impianto melodico struggente, si apprezza il cesello artigianale di certi arrangiamenti, si entra in sintonia con un cantautorato che ha radici folk ma che trova la sua forza espressiva in atmosfere jazzate e rarefatte

Sono quasi vent’anni che la carriera di Joe Henry si divide fra l’attività di produttore (Allen Toussaint, Lisa Hanningan, Bonnie Raitt, Billy Bragg, tra gli altri) e quella di musicista, con alle spalle già quattordici dischi in studio, oggetto di culto, giova precisarlo, di una nicchia abbastanza circoscritta di appassionati. Musicista colto e raffinato, songwriter di ballate folk in infusione con essenze jazzy, Henry ha sempre mantenuto un elevato standard qualitativo, senza tuttavia riuscire mai a raggiungere quel successo commerciale che avrebbe da tempo meritato. Questo nuovo Thrum non smentisce l’assunto di cui sopra e si allinea come ennesimo capitolo di una discografia ostica ma di gran classe. Un disco dalla struttura coesa, non di facile assimilazione, che va ascoltato più volte per poterne cogliere le sfumature e assimilarne l’intrinseca natura melodica. Come per il precedente Invisible Hour (2014), Joe si avvale di un gruppo di musicisti rodatissimo, tra cui spiccano il figlio Levon Henry (fiati), Patrick Warren (tastiere), John Smith (chitarra), Asa Brosius (Steel guitar) e i fedelissimi Jay Bellerose (batteria) e David Piltch (basso). Squadra che vince non si cambia, direbbero i calciofili: il risultato, infatti, è superlativo, il suono è nitido, pulito, essenziale. Henry è un grande produttore, e si sente; così, anche in quei casi in cui la scrittura sembra palesare qualche cedimento d’ispirazione, la cura del suono funge da stampella per garantire comunque un buon risultato finale. Le undici canzoni in scaletta, come dicevamo, non sono di facile assimilazione, richiedono tempo e pazienza, ascolti ripetuti. Lentamente, però, affiora un impianto melodico struggente, si apprezza il cesello artigianale di certi arrangiamenti, si entra in sintonia con un cantautorato che ha radici folk ma che trova la sua forza espressiva in atmosfere jazzate e rarefatte. Tutto scorre lentamente, l’incedere del disco è fluttuante, morbido, carezzevole, soffuso. E poi c’è quella voce, così tipicamente americana, così volubile nell’alternanza fra chiaro e scuro, così nobile nei suoi riferimenti stilistici (il Tom Waits di Blue Valentine al netto della raucedine) e al contempo così rassicurante per quel timbro nasale e profondo che da sempre ci accarezza il cuore. Difficile indicare i brani migliori di una scaletta di gran classe, ma se fossimo costretti indicheremmo la malinconica Hungry, la scorbutica World Of This Room e il nitore struggente dell’iniziale Climb, la più immediata del lotto. Thrum è un disco che non regala sorprese, almeno per tutti coloro che avevano apprezzato il precedente Invisible Hour, di cui è, in tutta evidenza, la logica prosecuzione. Resta, però, la certezza di trovarci di fronte a un songwriter di razza, capace di coniugare l’eleganza estetica a un’introspezione emotiva adulta, penetrante, genuinamente romantica. Chi ama la canzone d’autore è servito.