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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
21/11/2017
Pumpkins United
Ecco perché il passato non può tornare
Il passato è passato e quello che ti lascia dentro è tuo, fa parte di te. Evocarlo dalla tomba, farlo risorgere per non so quale appagamento momentaneo, rappresenta un errore, un grosso errore.

Credo che sabato sera si sia definitivamente chiuso un ciclo della mia vita di ascoltatore, quello indissolubilmente legato al Metal. È un genere musicale che ho frequentato e amato in modo quasi esclusivo per almeno un ventennio e di rimpianti, fino ad ora, ne avevo uno solo: non essere abbastanza vecchio per aver potuto vedere dal vivo gli Helloween con Michael Kiske alla voce. Che poi, parlare di rimpianto è assurdo, di per sé, visto che non è né colpa mia né dei miei genitori se sono nato quando sono nato.

Nel 1992, anno del loro ultimo concerto nel nostro paese, durante il tour di un disco che avrebbe costituito l’ultima tappa verso l’inesorabile tramonto di quella meraviglia che per quattro anni aveva incantato il mondo intero, io frequentavo ancora le scuole medie e l’espressione “Heavy Metal” era ancora qualcosa di totalmente indecifrabile visto che, aggravante mica da ridere, studiavo pure francese.

Li scoprii nei primi mesi del 1994, un anno e mezzo dopo essere partito di testa per gli Iron Maiden e poco più di sei mesi dopo essere stato al mio primo concerto in assoluto, Guns N Roses al Braglia di Modena. Negli anni ho ascoltato migliaia di dischi di centinaia di band, ho visto molta più roba dal vivo di quanto sia in grado di ricordare, ho scritto di non so quanti gruppi, sia in tono entusiastico che in tono schifato, sia col tono neutro di chi sta semplicemente adempiendo ad un dovere. Niente, dico niente, potrà mai eguagliare l’istante in cui, solo nella mia cameretta di adolescente, con l’urgenza impacciata di chi sa che di lì a poco dovrà scendere per la cena, misi su la copia appena acquistata di “The Best, The Rest, The Rare” e fui invaso dal riff di “I Want Out”. Ascoltai quel brano e i due successivi (che erano “Dr. Stein” e “Future World”, per la cronaca), poi andai a mangiare. Ma avrei potuto spegnere lo stereo dopo tipo dieci secondi. Avrei voluto farlo. Perché quello che stavo sentendo era semplicemente troppo bello per essere vero e perché dentro di me, probabilmente, sapevo già che per quanto ci avessi provato, per quanto avessi continuato ad ascoltare musica nelle fasi successive della mia vita, niente avrebbe mai più eguagliato la potenza di quell’istante, così insignificante e allo stesso tempo così foriero di promesse future.

Gli Iron Maiden con Dickinson li recuperai già nel 1999 e da allora ho ripetuto l’esperienza più volte, tanto da essermene saziato a sufficienza. Gli Helloween riuscii a vederli già nel 1994, durante il primo tour con Andi Deris e fu meraviglioso, emozionante. Ma non c'era Kiske e nel mio cuore sapevo che non sarebbe mai accaduto. La parola “reunion” aveva allora un suono incomprensibile e anche in questi ultimi anni, quando sembra essere divenuta orma l’unica carta da giocare per rivitalizzare un mercato musicale in caduta libera, loro ne sembravano clamorosamente immuni.

Da una parte c'era una band che, nonostante i cambi di formazione, nonostante una serie di dischi non propriamente di alto livello (almeno per il sottoscritto) continuava a vendere alla grande, fortunata eccezione in un mare magnum di crisi inesorabile. Dall’altra, un Kiske che passata la fase bigotta del “Il Metal è la musica del diavolo, non canterò mai più quella roba”, ha capito che dei suoi dischi acustici non fregava nulla a nessuno e si è rimesso in pista con una serie di collaborazioni, tra Place Vendome e Avantasia (e fu proprio grazie a questi ultimi che finalmente ebbi la possibilità di vederlo in azione su un palcoscenico) e il più recente progetto Unisonic. Ciononostante, di rientrare coi suoi vecchi compagni d’avventura, manco a parlarne. Me lo aveva pure detto di persona, nell’unica occasione in cui ebbi modo di intervistarlo: “Non tornerò mai con gli Helloween perché io faccio musica solo coi miei amici e Michael Weikath non è più mio amico da tempo!”.

Dubito che le cose siano cambiate nel frattempo. Ma i soldi fanno gola a tutti e il trentennale del primo “Keeper of the Seven Keys” deve essere stata un’occasione troppo ghiotta per farsela scappare.

Il “Pumpkins United” ha rappresentato, sin dal giorno del suo annuncio, ormai un anno fa, il realizzarsi del mio più grande sogno musicale di adolescente. Certo, non avrei avuto quello che davvero desideravo, uno show completo con la vecchia formazione, perché il piano era che l’attuale line up del gruppo avrebbe diviso il palco con Michael Kiske e Kai Hansen, anche lui richiamato per l’occasione. Del resto non si poteva certo dare il benservito a Deris dopo 23 anni di onorato servizio e di acqua sotto i ponti ne era passata decisamente troppa perché si potesse semplicemente resettare tutto e ricominciare da capo. Ma avrei nuovamente sentito quella voce per me così significativa cantare quei pezzi che hanno accompagnato la mia crescita. Non era poco, in effetti.

Adesso che quel concerto l'ho visto, gustato e consumato, ho capito come mai nella mia vita non mi sono mai guardato indietro. Ho capito perché odio tenere i rapporti con gente con cui non ho più niente a che fare, come mai non sono mai ritornato in un mio vecchio luogo di lavoro a salutare gli ex colleghi, come mai non ho mai sfogliato un album di fotografie, neanche per sbaglio. Il passato è passato e quello che ti lascia dentro è tuo, fa parte di te. Evocarlo dalla tomba, farlo risorgere per non so quale appagamento momentaneo, rappresenta un errore, un grosso errore.

Il concerto è stato bello, bellissimo. Un carrozzone variopinto e caciarone con due cantanti e tre chitarristi, sette musicisti sul palco quasi sempre in simultanea, con Kiske e Deris che un po' ne facevano una a testa e un po' duettavano abbracciati come fosse stata una finale di X Factor. Una scenografia ben allestita, con bellissimi visual che hanno arricchito ogni brano, con la ripresa di quella divertente iconografia degli anni ’80 che era stata un marchio di fabbrica della band e che negli ultimi anni si era purtroppo persa per strada. Sono state tre ore godibilissime, studiate in ogni minimo dettaglio per intrattenere e per piacere. Il vecchio Metal tutto lacrime e sudore, cuoio e borchie non c’entrava nulla, assolutamente. Il look era sempre quello, le canzoni erano quelle, la potenza e la perizia esecutiva non mancavano, per carità. Ma abbiamo assistito ad uno show televisivo, ad un musical, se preferite. Il Metal, quello che è sempre piaciuto a me, quello che ho mollato anni fa per disinteresse e allargamento di orizzonti ma che mi porto sempre nel cuore, io l’altra sera non l'ho visto neanche per sbaglio.

Ma non è stato questo a farmi venire la malinconia. Quello me lo aspettavo, sapevo che sarebbe stato un circo. Quello che mi ha intristito, che mi ha mandato a casa soddisfatto per lo spettacolo in sé ma colpito dall’inesorabilità della perdita, è stato un qualcosa che è difficile da spiegare.

È stato forse vedere Michael Kiske pelato, sovrappeso, ingessato, senza nessuna presenza scenica, sforzarsi di fare il simpatico in siparietti privi di simpatia, cantare quelle canzoni storiche facendo molta più fatica del previsto, il timbro intatto e affascinante come ai vecchi tempi, la sicurezza e la perfezione sui passaggi più ostici ormai irrimediabilmente perdute. “Avrebbero dovuto fare questa cosa dieci anni fa”, ho pensato subito dopo la fine di “Halloween”, il brano simbolo, la suite da tredici minuti con cui hanno giustamente scelto di cominciare. Un inizio col botto, pazzesco, il modo migliore per mandare immediatamente in visibilio le settemila persone presenti al Forum. Perché fino a pochi anni fa il cantante era in forma stratosferica. Negli ultimi tempi, un tracollo forse inevitabile con la consapevolezza che forse certi brani gli saranno per sempre preclusi (sarà forse per questo motivo che “Rise and Fall”, dopo le prime date, è sparita dalla scaletta? E che neppure ci sia stata quella “March of Time” che è una delle preferite dai fan?).

Non ce l'ha fatta, Kiske. È stato bravo su alcuni passaggi, ha arrancato visibilmente in altri, ha fatto cantare con professionale paraculismo quasi tutti i ritornelli (emblematico quello di “I’m Alive” dove certamente non sarebbe potuto arrivare). Era lì, assieme ad Hansen e a tutti gli altri; stavano suonando proprio quelle canzoni lì; ho sentito “Keeper of the Seven Keys” fatta da lui, ho sentito “A Little Time”, persino quella “Kids of the Century” che mi è sempre piaciuta così tanto. È stata una scaletta bellissima, con forse qualche assenza di troppo ma nel complesso era difficile chiedere di più.

Eppure, non è accaduto proprio del tutto. Erano su quel palco e allo stesso tempo non c'erano. Non so che cosa sia stato. Forse i volumi non propriamente altissimi, forse la sorpresa di constatare che, sui vecchi pezzi, l’impatto e il tiro sono un po' mancati, nonostante la prova stratosferica del batterista Dani Loëble, che persino l’incursione nel repertorio di “Walls of Jericho” con Kai Hansen alla voce, pur trascinante, puzzava un po' di stantio.

Forse è dipeso dal fatto che ad un certo punto mi sono accorto che Andi Deris era molto, molto più in forma del suo collega. Che quel cantante amato/odiato, proveniente da un background completamente diverso dal Power Metal tedesco, che negli anni ha scritto brani splendidi ma anche sfoderato dal vivo prestazioni indegne, stava letteralmente dando la merda all’idolo della mia giovinezza. E ancora di più, dal realizzare con sgomento che gli episodi dell’ultimo periodo, che certamente non possono essere considerati come le cose migliori mai composte da loro, stavano uscendo molto ma molto meglio dei brani storici. C’è stato molto più tiro in una “Waiting for the Thunder” o in una “If I Could Fly” che in una “Eagle Fly Free”, per dire. Ho avuto l’idea che gli Helloween di oggi, piacciano o no (io personalmente ho smesso di andarli a vedere dal vivo da dieci anni e gli ultimi tre dischi li ho ascoltati pochissimo), abbiano una loro dimensione ormai consolidata e che certe sonorità, certi ritmi, semplicemente non li appartengano più.

Ma probabilmente a mandarmi al tappeto una volta per tutte ci ha pensato “Sole Survivor”: già, quel brano con cui avevano aperto l’8 novembre 1994 al City Square di Milano quando li vidi per la prima volta dal vivo, ragazzino di sedici anni al mio terzo concerto in assoluto. Mi è venuta in mente l’adrenalina di allora, lo sforzo di urlare le parole della prima strofa con la voce che non si sentiva perché coperta totalmente dal singalong del pubblico. Ho ripensato a quelle sensazioni mentre la mia versione 2017 cantava quelle stesse parole e ho capito definitivamente che era finito tutto. Certe cose non ritornano, certe emozioni non si rivivono e per fortuna che è così.

Non lo so, probabilmente per molti il concerto di sabato sera sarà stato clamoroso, un autentico avvenimento. Per me è stato, pur nella sua indiscutibile bellezza, un tentativo pietoso di riportare indietro il tempo, di fingere che non sia successo nulla, in questi anni in cui siamo cresciuti e siamo faticosamente diventati adulti. Mi è piaciuto e tornerò a vederli, se decideranno di andare avanti con questa modalità e proporranno uno spettacolo diverso; ma non potrò mai dire: “Ho visto gli Helloween con Michael Kiske alla voce”. Quello è stato molto tempo fa e me lo sono perso per sempre. Ho semplicemente sfogliato una fotografia, sono stato a una riunione di famiglia. Mi è stato detto senza mezzi termini che ho quasi quarant’anni e che sono felice, molto felice della persona che sono diventato. Il ragazzino che ascoltava gli Helloween in camera sua non c'è più e non mi è mai mancato né mai mi mancherà.