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REVIEWSLE RECENSIONI
07/07/2017
Inarmonics
A Thing Of Beauty
Un esordio coi fiocchi dei modenesi Inarmonics, a testimonianza che anche in Italia, se si ha il coraggio di sganciarsi dal contesto e di sbrigliare l’inventiva senza logiche di mercato, è possibile incidere dischi di respiro internazionale.

A fare questo lavoro, si ascoltano tanti cd, forse troppi. E pur con tutta la buona volontà, l’attenzione e la deontologica predisposizione all’obbiettività, è davvero difficile trovare dischi che ci facciano fare il classico balzo sulla sedia. Soprattutto, poi, quando ci immergiamo nel panorama italiano, in cui molto spesso la proposta è tarata su standard musicali decisamente consunti o, nel migliore dei casi, clonati dai paesi anglosassoni. Poi, però, ci sono anche delle piccole, ma vitalissime, enclave, che resistono alle lusinghe del banale e non si fanno contenere nei rigidi steccati di uno stucchevole deja vu. E’ il caso dell’etichetta ferrarese New Model Label, che tra le tante interessanti proposte, pubblica in questi giorni A Thing Of Beauty, disco d’esordio dei modenesi Inarmonics, quartetto nato nel 2015 dalla fusione di due band locali, i Delta THC e i The Edmundos. Messo il cd nel lettore, la prima cosa che colpisce, a parte il colpo d’occhio surreale della splendida copertina, è il senso di positivo spaesamento di fronte a un pugno di canzoni difficilmente etichettabili. Che in A Thing Of Beauty siano convogliate le diverse esperienze dei componenti del gruppo (Gianluca "Il Negro" Gabrielli: voce, chitarra; Massimiliano Manocchia: chitarra; Gianpaolo "Saimon" Simonini: basso; Manuel Prota: batteria) è un fatto di immediata evidenza; eppure, ciò che sorprende fin da subito è la straordinaria semplicità con cui vengono armonizzate sonorità distantissime fra loro, anche per genesi storica. La resa del melange, grazie ad arrangiamenti lineari che trasmettono coerente solidità al quadro d’insieme, è pressoché perfetta: new wave, prog-rock, jazz e spruzzate di funky-soul riescono a convivere quasi in simbiosi anche all’interno dello stesso brano, tanto che, con una fascinosa forzatura classificatoria, si potrebbe parlare a proposito di A Thing Of Beauty di prog-wave. Un azzardo, certo, ma necessario, ancorché riduttivo, per tracciare delle coordinate utili all’ascoltatore. Difficile, se no, orientarsi in un caleidoscopio di colori che spazia fra il blue cobalto dello sconquasso post wave di History, le sfumature scarlatte dei languori soul della title track, le vertigini argentate del funky jazz di Funkarabian Scat o i pastelli tenui di Gone Too Fast. La chitarra icastica di Manocchia, il cantato scabro di Gabrielli, il pulsare al limite del basso di Simonini e i controtempi distopici di Prota veicolano una concezione musicale insolita, nella quale melodie di presa immediata deragliano in possenti break strumentali che non lasciano scampo. Un esordio coi fiocchi, a testimonianza che anche in Italia, se si ha il coraggio di sganciarsi dal contesto e di sbrigliare l’inventiva senza logiche di mercato, sia possibile incidere dischi di respiro internazionale.