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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
16/10/2017
David Grubbs
The Thicket
Un capolavoro in poco più di trentacinque minuti; ma Grubbs merita di essere ulteriormente approfondito: come Roy Montgomery è meno un uomo che una vasta e sconosciuta letteratura musicale.
di Vlad Tepes

David Grubbs, chi era costui? Nato a Louisville (Kentucky), già chitarrista di Bastro, Bitch Magnet e Squirrel Bait, fondò i Gastr Del Sol (in cui confluirono elementi dei Bastro, nonché, in un secondo tempo, Jim O ‘Rourke) arricchendo poi il suo già straordinario pedigree musicale con collaborazioni eccellenti (Red Krayola, Codeine, Tony Conrad: chi ha orecchie per intendere, intenda).

Con questo suo secondo lavoro da solista egli raggiunge le vette della propria arte. Arruola il vecchio sodale John McEntire (Tortoise, percussioni), Jow Bishop e Ernst Kirche ai fiati, John Abrams (basso), il vate minimalista Tony Conrad al violino e ci consegna un disco materiato da brevi canzoni folk trasognate e incantevoli mantra sperimentali. L’apparente contraddizione deriva principalmente da una considerazione della musica per generi, superata quanto ormai intollerabile: lo stille del Grubbs folk è pacato e rarefatto, intemporale quasi come quello di John Fahey (termine di paragone quasi inevitabile) e contiene già la potenzialità per diradarsi ulteriormente in atmosfere sempre più impalpabili.

L’eponimo brano iniziale, “The Thicket”, consiste solo di voce e pizzicate di banjo che si dissolvono lentamente sotto uno strato stuporoso di fisarmonica e fiati; lo stesso in “Two Shades Of Blue”: Grubbs alterna la sua piana interpretazione strumentale e vocale con interventi di tromba e batteria; in “Fool Summons Train” il tradizionale incedere folk, con intarsi violinistici di Conrad, ristagna con sospensioni del ritmo dominate da sommessi accordi di chitarra: il contrasto riesce a suggerire praterie interminate come nei viaggi emozionali di Fahey. Così come in certe miniature l’esiguità dello spazio dipinto o l’apparente povertà cromatica esaltano, anziché deprimere, il senso della profondità e l’incanto favoloso, così in Grubbs gli accordi elementari di chitarra e di banjo, gli arresti contemplativi, gli scarti improvvisi col delicato intervento dei fiati, del piano e delle percussioni generano dei brevi bozzetti di smagliante ricchezza di toni ed evocatività (anche nelle bellissime “Amleth’s Gambit” e “Buried In The Wall”, canzone, questa, che si potrebbe aggiungere a Spiderland).

Col dittico “40 Words on ‘worship’” e “On ‘worship’”, Grubbs, invece, accede alla sperimentazione piena: ai bordoni elettronici si affianca il violino-cornamusa di Tony Conrad creando mantra sobri quanto incantati (che il Nostri svilupperà in alcuni lavori successivi).

Un capolavoro in poco più di trentacinque minuti; ma Grubbs merita di essere ulteriormente approfondito: come Roy Montgomery è meno un uomo che una vasta e sconosciuta letteratura musicale.