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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
12/10/2017
Il Suprematismo musicale
...e il dato generazionale
L’essere umano, per sua natura, tende a guardarsi indietro, soprattutto se ha superato una certa età anagrafica. Ecco, allora, che invecchiando, sentiamo più forte l’afflato nostalgico, e ricerchiamo nel nostro passato, amicizie, amori, volti, emozioni. E musica.

Ho scritto di getto queste considerazioni, dopo aver letto l’articolo dell’amico Luca Franceschini dal titolo L’età dell’oro non esiste: si può ascoltare “Riccione” senza vergogna? Il pezzo era troppo intelligente e troppo denso di argomenti per limitarsi ad assimilarlo, senza avere il desiderio di sviluppare alcune riflessioni e di aggiungere un po’ di peperoncino alla pasta, peraltro già ben condita.

Che vi sia una diffusa forma mentis che tende a denigrare la musica del presente in favore di quella passata, è un incontrovertibile dato di fatto. Chi vive, anche solo per passione, nel mondo della musica, avrà affrontato almeno una volta l’argomento, trovandosi, a seconda del proprio punto di vista, dall’uno o dall’altro lato della barricata. Personalmente, sono stato invischiato in questa polemica decine di volte, fino al punto che adesso, stanco di rimbalzare contro il classico muro di gomma, alla prima frase dal sapore retromaniaco, mi alzo e mi ritiro in buon ordine. Non perché non apprezzi la musica del passato (in questo mi trovo d’accordo con Luca, con l’eccezione del cantautorato italiano), ma perché odio ogni presa di posizione suprematista, tanto nella vita quotidiana quanto in ambito culturale; e perché sono consapevole, soprattutto, che alcune posizioni (avete presente la classica frase: “musica come si faceva negli anni ’70 non se ne fa più”) non sono in alcun modo emendabili, e nessun ragionamento, anche il più dotto e approfondito, può in qualche modo far mutare idea all’ostinato interlocutore.

La musica, mi si consenta l’ovvietà, si divide solo in musica bella e musica brutta, a prescindere dall’epoca in cui è stata composta. La musica, inoltre, è un organismo in movimento: cresce con lo scorrere del tempo e si sviluppa come corpo che non può essere assolutamente avulso dai rivolgimenti del progresso e della società. Questi argomenti, però, pur apparendomi logicamente ineccepibili, raramente vengono rielaborati dal mio interlocutore e spesso sono rimandati al mittente come capziosi e inconsistenti.

Quali sono i motivi che inducono a ritenere un’epoca musicale superiore all’altra? Cosa fa dire che gli anni ’70, ad esempio, sono artisticamente superiori al tanto vituperato decennio eighties o alle avanguardie elettroniche degli anni ‘00? Credo che due possano essere i motivi principali. Il primo, mi concedo una cattiveria, è una conoscenza della musica parziale e raffazzonata, circostanza che, abbinata a una certa pigrizia mentale, fa giungere a conclusioni, a mio parere, aprioristiche e sostanzialmente scorrette. Chi stigmatizza gli anni ’80 come il decennio della musica di plastica, è perché riconduce, con una forzatura olistica, dieci anni di musica al synth pop (e anche al più becero, peraltro), dimenticandosi della new wave, del post punk, dei Gun Club, dei Pere Ubu, dei Gang Of Four e di altri gruppi imprescindibili allo sviluppo di una solida coscienza critica. Nello stesso modo fa chi incensa gli anni ’70, dimenticandosi, da un lato, che quel decennio non faceva altro che sviluppare, spesso in modo artificioso, concetti già sperimentati negli anni ’60, e che molta di quella musica, parlo ad esempio del progressive rock, era così radicata al periodo del suo concepimento, da risultare del tutto ininfluente per gli sviluppi successivi.

C’è un altro motivo, a mio avviso, che alimenta il passatismo ed è, però, attinente a una sfera nostalgica e sentimentale. Il presente, la vita di tutti i giorni, si presenta ordinario, è cronaca avviluppata nell’abitudine. L’essere umano, per sua natura, tende a guardarsi indietro, soprattutto se ha superato una certa età anagrafica. Ecco, allora, che invecchiando, sentiamo più forte l’afflato nostalgico, e ricerchiamo nel nostro passato, amicizie, amori, volti, emozioni. E musica. Che diventa ricordo e, quindi, nostalgia. Certi suoni, in fin dei conti, sono dentro di noi e vivono in noi vestiti dall’epica della nostra giovinezza: anni felici e musica felice contro il pane duro della realtà quotidiana. Senza questa risposta, non mi spiegherei per quale motivo nel 1982 odiavo i Duran Duran e ora, quella musica, la sento tanto vicina a me, da ritrovarmi a canticchiare sulle note di Rio; circostanza, questa, che non si verificherebbe mai con una canzone a caso, degli odierni Duran, la cui caratura artistica trova il suo apice come stacchetto della Lega Calcio fra un tempo e l’altro della partita. E così torniamo al busillis: la valutazione che ognuno di noi fa della musica è sempre connessa a un dato meramente generazionale? Dal mio punto di vista, mi sento di concordare con Luca, aggiungendo a quanto detto che chi ama veramente la musica (ma questo succede per qualsiasi forma d’arte) ne cerca soprattutto la bellezza, a prescindere dall’anno in cui è stata creata: è una ricerca inesausta, che ti fa diventare (orizzontalmente e verticalmente) omnivoro, perché il rischio sarebbe quello di perdersi il disco decisivo, magari uscito proprio nel 2017. Certo, poi ci sono i gusti, con cui scremiamo. Questa, però, è tutta un’altra storia.

PS: tutta questa discussione potrebbe essere parzialmente oziosa, qualora sposassimo il frusto brocardo che recita: “il rock è morto” (ndr: per la precisione, ad Altamont, nel dicembre del 1969). Se è così, per quasi cinquant’anni, tutto si è riciclato e ogni canzone che ascoltiamo non è altro che la replica, un po’ imbellettata per coprire il pallore, di quello che c’è già stato. Il passatismo è allora strutturale e il predominio della musica vecchia su quella nuova è una contraddizione in termini: sono la stessa cosa.