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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
04/02/2018
Visione
(con intrusioni di Ornella Genua)
Questo articolo nasce in occasione dei 70 anni di John Carpenter, regista che negli anni ha regalato pellicole visionarie e importanti per la riflessione sullo stato della visione e sul potere che ci vuole condizionare.

"Look mummy, there’s an aeroplane

Up in the sky"

("Goobye Blue Sky" - Pink Floyd)

 

"God is in the silences

Between the rhythms

Rise and falling

The starring of the skies of blue

The promise of tomorrow's calling"

"Come Morning" - David Slvian)

 

Silenzio - Scena Prima

Per il fatto stesso che adoro la musica, non posso che apprezzare il silenzio. Questa dimensione, questo senso di quiete mi è regalato da alcuni dischi che oramai ascolto da decenni: “The Boatman’s Call” di Nick Cave, “The Secret of the Beehive” di David Sylvian e, da ultimo, “Vespertine” di Bjork. Ritengo che questo album rappresenti l’apice della produzione dell’artista islandese come progetto: i suoni, le atmosfere, il cantato, tutto rimanda a una dimensione di raccoglimento che trascina altrove. Il ricordo dell’acquisto del cd mi porta a una sera di settembre in cui, mentre aspettavo il pullman che mi riportava a casa dopo una giornata di lavoro, guardavo il cielo. L’album fu pubblicato nel 2001 e quella sera porta la data del 10.

Caos - Scena Seconda

Non era più una strada ma un mondo, un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità. […] Correvano e cadevano, alcuni, confusi e sgraziati, fra i detriti che scendevano tutt’intorno, e qualcuno cercava rifugio sotto le automobili. Nell’aria c’era ancora il boato, il tuono ritorto del crollo. Il mondo era questo, adesso. Fumo e cenere rotolavano per le strade e svoltavano angoli, esplodevano dagli angoli, sismiche ondate di fumo cariche di fogli di carta per ufficio in formati standard dai bordi taglienti, che planavano, guizzavano in avanti, oggetti soprannaturali nel sudario del mattino”.

Non in esergo ma parte integrante del testo.

Rinuncio, per questa citazione, a una mia prassi consueta (vale a dire quella di far precedere l’argomento di cui voglio parlare da eserghi a mo’ di mantello per tutto ciò che segue).

Ritengo che per l’incipit da “L’uomo che cade” di Don De Lillo la posizione in esergo, seppure ragguardevole, sarebbe inadeguata e debba quindi essere inserita nel testo: si tratta, a mio avviso, di parole che sarebbe scorretto scorporare dal testo proprio per la pregnanza e per la stretta pertinenza con la mia riflessione.

La prima volta che lessi queste righe, pensai immediatamente a quella sera in cui guardavo il cielo, alle promesse del domani di cui cantava David Sylvian, tragicamente spezzate il giorno dopo, in una mattina che ha aperto le porte dell’inferno al terzo millennio. Quello che mi colpì di quel testo fu l’esatta descrizione del deflagrare in tutti i sensi di una sensazione, vale a dire che anche a correre, anche a mettersi in fuga, non era più chiaro dove andare. “Non era più una strada, ma un mondo”. Un mondo di oggetti soprannaturali nel sudario del mattino, che cadono avvolti da un lenzuolo di polvere, da un sudario che copre tutto quello che ci circonda.

Non è possibile, a questo punto, non pensare al finale di “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni: una ragazza fissa violentemente un simbolo che vuole annientare e le mura dell’ambiente domestico esplodono; mille oggetti ridotti in pezzi ripresi da più di venti telecamere per i diversi punti di vista con cui mostrare l’esplosione (1). Anche in quella scena siamo posti di fronte alla visione di un mondo in deflagrazione, il nostro sistema degli oggetti filmato al ralenti nel cielo, dopo l’esplosione della villa. Sembra un anticipo, quasi una profezia di tutte le ripetizioni, in seguito proposte dai media, della scena dell’impatto di quei due aerei che in quel settembre tutti abbiamo guardato nel cielo di New York. 

Accendendo un monitor.

Ritorno a casa? - Scena Terza

Lo stesso cielo che nel libro sopra citato due bambini continuano ossessivamente a scrutare con il binocolo.

E’ questo l’insolito punto di vista scelto da Don De Lillo, come angolazione da cui affrontare l’argomento che da più parti gli veniva chiesto di trattare (se non tramite richieste esplicite, quantomeno era la sua produzione negli anni che portava il mondo letterario ad attendere la sua scrittura su questo preciso avvenimento). Penso in particolar modo ai temi presenti in un suo libro che ho amato molto: “Mao II”. Innanzitutto, per l’immagine riprodotta in copertina, balza all’occhio il rimando estetico alla perfetta simmetria delle Twin Towers: due copie del volto di Mao riprodotte da Andy Warhol, l’artista che più di altri ha concretizzato la riproduzione seriale delle immagini, preconizzando come il brand/icona dei prodotti commerciali avrebbe invaso il nostro occhio, impressionando la nostra retina e marchiando in maniera indelebile la nostra mente. “Mao II” –dicevo- come opera che dieci anni prima dell’attacco alle Torri Gemelle, poneva una riflessione su chi detenesse nel mondo moderno il potere di incidere sull’immaginario collettivo, inteso come capacità di condizionare il pensiero: terroristi vs scrittori (ma anche immagine vs parola scritta). In quest’opera è adombrato lo scacco degli scrittori, l’oscuramento della loro capacità di contribuire alla formazione di una presa di coscienza.

In questo senso, dieci anni dopo, lo scrittore italoamericano era atteso con un intervento. Spiazzante è il modo con cui De Lillo affronta la prospettiva dal punto di vista del “ritorno a casa”. Una moglie, vede ricomparire dalla porta, coperto di quella polvere proveniente dal “sudario”, il marito con cui era in crisi. Una persona, presunta morta, tornata da quell’inferno. Cosa dirsi? Come commentare? E’ rimasto ancora qualcosa della forza del linguaggio - della comunicazione, che è il fondamento di ogni relazione - o ne restano solo le macerie?

Il mondo era questo adesso”? Ritornare ai gesti quotidiani, fare colazione insieme, ad esempio. Un momento d’intimità familiare dove la donna racconta all’uomo la preoccupazione nel vedere i figli costantemente attaccati alla finestra, per vedere se gli aerei di Bill Lawton (2) torneranno di nuovo.

Qualcuno non tornerà - Scena quarta

Un luogo dove ho sperimentato una forma di tragico apparente silenzio e al tempo stesso di raccoglimento è il Museo per la Memoria di Ustica, installazione permanente realizzata da Christian Boltanski a Bologna, luogo di partenza del DC-9 che la sera del 27 giugno 1980 volava in direzione di Palermo e mai atterrò. Incidente tecnico? Esplosione a bordo? Incidentale abbattimento da parte di un missile che aveva un altro bersaglio? Ritengo che non sia questa la sede dove affrontare un’analisi storico politica. Quello che m’interessa sottolineare è che ancora una volta l’arte è chiamata a dare testimonianza, a mantenere viva la memoria, sempre che, come scriveva Leonardo Sciascia, la memoria abbia ancora un futuro. 81 specchi neri che riflettono il passaggio del pubblico che cammina sul ballatoio e dall’alto vede i resti dell’aereo ricomposto. 81 altoparlanti che diffondono, in un amalgama di sovrapposizioni sonore, i pensieri dei passeggeri in cui l’artista ha cercato di immedesimarsi: le promesse del domani spezzate per sempre. Per fare alcuni esempi: la decisione di rompere una relazione controversa, la paura per un esame da sostenere l’indomani, il viaggio verso una destinazione di riposo, la gioia del ritorno a casa dai parenti Attese, speranze, paure. La vita nel suo fluire che tutti noi sperimentiamo quotidianamente.

Non più.

Le 81 vittime sono ricordate mediante delle luci che dal soffitto si spengono e accendono con la regolarità del respiro. Mentre partecipavo di questa dimensione, sono stato colto da svariate riflessioni, oltre alle sensazioni che può dare la vista di “quel” relitto. Soprattutto il rimando a questa e alle altre storie che ancora attendono una verità. Che cosa è successo nei cieli quel giorno? E nel settembre del 2001? Chi è che detiene i fili delle narrazioni? Quali trame, quali fili di potere oscuro tessono sovente una trama volutamente inestricabile?

L’aereo - Scena quinta

Wires.

Un uomo cammina sospeso su un cavo metallico teso tra le due Torri Gemelle. L’impresa di Philippe Petit delle 6.45 del 7 agosto 1974 rappresenta forse, come sostiene Marco Belpoliti, la conquista del Vuoto (3), ma quando vidi il documentario di quella performance, non potei che pensare alle parole di Friedrich Nietzsche: “L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell'uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell'uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto”. Ed ecco che con la parola tramonto vengo trasportato circolarmente, in una sorta di eterno ritorno, ancora a quella sera del 10 settembre 2001 in cui mi sono sentito in pace. Il giorno dopo, mentre tornavo ancora una volta e, fortunatamente, a casa dai miei cari, il pullman che di solito era veicolo anche di voci, di commenti, di suggestioni (pensate agli altoparlanti di Boltanski) era immerso in un silenzio spettrale pur avendo passeggeri a bordo. Non era più un bus, ma un mondo, parafrasando Don De Lillo; un mondo irreale. Così come deve essere sembrata irreale alla gente che da terra guardava in alto, la visione di Petit, il funambolo che nel 1968, leggendo nello studio del suo dentista di due nuovi edifici in costruzione, tracciò sulla foto del giornale una riga tra le due torri e decise che sarebbe salito su quella riga, outlaw, senza autorizzazione.

Un fuorilegge, come Jena Plissken, inviato dentro una New York spettrale, buia, diventata un carcere di sicurezza, a recuperare l’uomo più potente del mondo, il presidente degli Stati Uniti, preso in ostaggio da bande di “criminali”, dopo che il suo aereo, l’Air Force One era stato abbattuto.

Resterà per sempre nella mia mente, la Visione (ecco a cosa alludevo nel titolo) di Kurt Russel-Jena Plissken che vola su New York e atterra sulle Torri Gemelle proprio al limite del tetto di una delle due torri - lo stesso punto dal quale Philippe Petit fece il primo passo verso la fune (4) - in “1997; Fuga da New York”, film del 1981 di John Carpenter, ancor più epocale e germinale, se non addirittura profetico, rispetto a “Blade Runner” di Ridley Scott.

Non ringrazierò mai abbastanza il regista per aver inserito nella colonna sonora, a commento di questa scena, una sua rielaborazione elettronica del preludio di Claude Debussy “La Cathédrale engloutie”, che si rifà al mito celtico della città di Ys (due lettere…come per N.Y.) riemersa dall’acqua per l’ultima volta prima di esserne definitivamente inghiottita (5). Un’apparizione, un gesto di rinascita, quasi un tentativo di rivincita; come quello di Jena che srotola il nastro della musicassetta che sarebbe servita al Presidente liberato, per la messa in onda radiofonica del messaggio che avrebbe dovuto divulgare al summit mondiale. Un “criminale” (?!) che si allontana nel buio distruggendo un messaggio, dopo aver sostituito la musicassetta con un’altra di musica foxtrot che, una volta trasmessa mette a nudo il re e ridicolizza il Presidente, cui delle persone morte per salvarlo non importa(va) nulla.

Una visione. Una narrazione.

 

Post Scriptum

Questo articolo nasce in occasione dei 70 anni di John Carpenter, regista che negli anni ha regalato pellicole visionarie e importanti per la riflessione sullo stato della visione e sul potere che ci vuole condizionare. Oltre al già citato, capitale film su New York, mentre scrivevo pensavo a un’altra sua opera: “Essi vivono”. Qui il ritrovamento fortuito di una scatola di occhiali da sole permetteva di vedere la realtà dei segni celati dietro/dentro le cose. Potentissima la scena in cui, il protagonista, aggirandosi in un market con indosso gli occhiali, vede cosa dicono in realtà i prodotti, quali messaggi subliminali le merci ci inviano nel loro “spettacolo”: OBEY - CONSUME  - TRUST -  SURRENDER.

Lenti, schermi: strumenti per vedere. Poco sopra accennavo ai monitor dai quali molti, me compreso, nel mondo videro i due aerei schiantarsi.

Un monitor conclude anche un altro grande romanzo di Don De Lillo incentrato sul potere: “Underworld”; un’ulteriore opera germinale, pubblicata nel 1997, a partire dall’ emblematica immagine di copertina: ancora le Twin Towes, che stavolta a differenza di  quelle della copertina de “L’uomo che cade” non trasmettono un senso d’instabilità/vertigine, tutt’altro: quasi sovrapposta alla “feritoia” di luce tra le due torri ecco una croce e nell’aria, la sagoma di un uccello in avvicinamento.

Sul monitor che conclude il libro campeggia una scritta che vuole essere un augurio e una speranza: PACE.

Ma se guardiamo quella stessa immagine di copertina  (inconsapevolmente e tristemente profetica) coi nostri occhi di contemporanei coscienti dell’accaduto, cosa significa quella croce? Cosa rappresenta quell’uccello? Chi sembra detenere il potere sulla narrazione e sull’immaginario collettivo?

A noi, pur divoratori di immagini, piace pensare e sperare che nel futuro ci siano sempre più menti geniali come quella di Don De Lillo, che di fronte alla storia e al suo intreccio, ma anche prima del suo dipanarsi, riescano a captare le vibrazioni di un mondo che cambia e ci aiutino a non appiattirci su un’unica visione imposta, omologante, violenta e perciò stesso generatrice di violenza.

Did you see the frightened ones? Did you hear the falling bombs?

Did you ever wonder why we had to run for shelter when the

Promise of a brave new world unfurled beneath a clear blue Sky?

(Goodbye Blue Sky - Pink Floyd”)

 

Post-visione

Dato il titolo di questo articolo vi proponiamo un suggestivo esperimento: dopo aver visto il video della scena finale di “Zabriskie Point” che trovate a fondo pagina, gustatelo di nuovo avendo l’accuratezza di togliere l’audio a partire dal minuto 2:51 e con un altro hardware fate partire l’audio della versione elettronica di Cathédrale engloutie tratta da “1997: fuga da New York”.  

https://www.youtube.com/watch?time_continue=31&v=Dg4MKSxY_sw

Troverete un interessantissima corrispondenza tra i suoni e le immagini. Caso? Caos?

______

Note:

(1)“La colonna sonora di questa scena è “Come on number 51, your time is up”, versione alternativa di “Careful with that axe Eugene”. Altre musiche erano state composte dai Pink Floyd, ma successivamente tolte da Michelangelo Antonioni. Tra queste anche la bellissima “Us and them” poi inserita dal gruppo in “The Dark Side of the Moon”, perfetta nelle tematiche per accompagnare le scene di scontri del film.

(2) Potenza dello stile, e della forza di coinvolgimento della narrazione, per cui il titolo della prima parte del libro, “Bill Lawton”, altro non è che un abile nascondimento di chi sia questo personaggio che da il via alla narrazione ma che non viene mai nominato. Tanto che man mano che leggevo mi chiedevo: spunterà mai fuori prima o poi questo Bill?!?

Bill Lawton è la storpiatura che i due bambini fanno del nome di Bin Laden.

(3) Marco Belpoliti, “L’età dell’estremismo” - Guanda Editore, 2014

(4) La prima “camminata” di Philippe Petit è del 1971, tra le due torri di una Cattedrale: Notre-Dame de Paris

(5) Un’atmosfera analoga si ritrova in alcuni dipinti di un’artista di origine bulgare, Daniela Stoykova, recentemente esposti in una galleria d’arte milanese. L’artista è principalmente dedita alla musica, (abbiamo saputo dal gallerista che studia in Conservatorio), ma possiede anche un notevole talento pittorico e nelle opere esposte l’acqua faceva da trait-d’union; spesso costituiva la base irreale di città che possono facilmente ricordare l’urbanistica metropolitana alla Blade Runner.