Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
REVIEWSLE RECENSIONI
09/06/2020
Andreotti
1972
La scena Indie italiana si sta così tanto sbizzarrendo per trovare la novità a tutti i costi, la proposta originale senza epigoni e precedenti, che credo stia correndo fortemente il rischio di appiattirsi su un continuo cliché di citazioni ammiccanti, incentrate su una contemporaneità che costituisce facilmente garanzia di rapido oblio.

Eleggere Andreotti a proprio moniker può sembrare un'idea geniale, così come nascondere la propria identità dietro una maschera da Bagaglino a cui sono stati aggiunti un paio di baffi. Idem per il titolo del disco d'esordio, “1972”, che oltre ad un'annata musicalmente densa di memorie, è anche quella del primo esecutivo guidato dall'esimio esponente democristiano. 

Tutti accorgimenti che sarebbero forse risultati irresistibili dieci anni fa ma che oggi, con I cani già consegnati alla storia, con Le luci della centrale elettrica spente da tempo, con Calcutta che suo malgrado ha dato origine ad una schiera di imitatori, il 90% dei quali non meritevoli di considerazione, un progetto come questo, nonostante sia dotato di tutti i crismi per conquistare le folle, rischia seriamente di essere relegato nell'anonimato ancora prima di iniziare. 

“Rischia”, appunto. Perché poi, alla prova dei fatti, Andreotti non è così male. Se musicalmente appare come una fin troppo smaccata citazione dei paradigmi ottantiani e di un cantautorato che sta a metà tra Battisti e Lucio Dalla, sulla scia di quanto fatto in passato da un nome quasi dimenticato come Babalot e da uno in verticale ascesa come Iosonouncane (ci sono molti momenti in “1972” che mi hanno riportato alla mente il suo disco d'esordio, che aveva umori e toni molto simili), se ci si entra dentro più in profondità, le cose poi funzionano abbastanza. 

Si tratta di brani parecchio omogenei, tutti giocati sul calore del rapporto basso/Synth, con fraseggi chitarristici avvolgenti e nostalgici, una spruzzata di beat e percussioni in un paio di brani, un tocco di quello che mi è parso un sax, ad impreziosire il finale di “Colori”. 

Non so quanti di voi si ricordino quel piccolo capolavoro di “Aloha” de I dinosauri, band campana che scomparve senza lasciare traccia dopo aver pubblicato solo quella manciata di pezzi (Nicholas Mottola Jacobsen però è un nome parecchio conosciuto nella scena musicale italiana). Ascoltando Andreotti mi sono venuti in mente anche loro, che filtravano le linee vocali e le facevano scomparire dietro tonnellate di tastiere, con un feeling agrodolce che più tardi sarebbe stato ripreso da act come Costiera e Riva.

Qui c’è una voce dal timbro sgraziato e quasi irriverente, che ricama testi giocati sulla continua iterazione di rime baciate e assonanze, ad imitazione del modello inglese, fatti di associazioni di idee al limite del nonsense (“Venderò casa come Piero Pelù, come le caramelle mou”; “Non sbatterò quei persiani cinesi, Patrizia Vallesi”), freddure tremende (“Quando bevo non Pippo, quando mangio Peperino”) e massime di vita (“C’è che alla lunga anche Parigi rompe i coglioni”; “Amarsi a vent’anni è follia, scopare alle feste è magia”) e canzoni che hanno titoli che citano personaggi o città (“Luis Miguel”, “Lombroso”, “Winnie the Pooh”, “Sassuolo”). 

Nonostante qualche caduta di stile (sinceramente, versi come “Da domani ti giuro Cracco Spotify Canavacciuolo Netflix, guardiamo Stranger Things, al limite fumiamo un po’” nel 2020 non possono essere più ascoltati senza storcere il naso) ci si sorprende misteriosamente attratti e si arriva alla fine con la sensazione che forse qualcosa ci abbia lasciato dentro. 

Il merito principale, al di là di una scrittura efficace (che rimane tale nonostante alla lunga i brani si assomiglino un po’ tutti) è che c’è un senso di tristezza che pervade tutto il disco, una disillusione cupa sulla realtà che lo rende lontano dagli usati cliché delle produzioni It Pop, per cui bisogna ostentare frivolezza e vittimismo allo stesso tempo e dove l’imperativo di non prendersi mai troppo sul serio è divenuto ormai fin troppo artificioso. 

Sono canzoni che provano ad essere sfacciate ma che finiscono per rivelarsi malinconiche, con sprazzi di vero che a più riprese incrinano la maschera di ostentata sicurezza che l’io narrante prova ad indossare (“Mi mancano i Beatles, mi manca il tuo pianto”). È un disco dove, tra una citazione e un gioco di parole, si constata che “è terribile invecchiare, rompersi i coglioni essere adulti e non giocare più”, per cui pare che tutti i tentativi che vengono presi per difendersi dal mondo o per mostrarsi a proprio agio nel complesso gioco dell'esistenza siano destinati a fallire. 

Si evoca un importante politico della nostra storia, si fa un disco con un titolo retro e si usano sonorità romantiche che creano uno strano contrasto con la crudezza e l'irriverenza dei testi. Tutto questo, però, non servirà per arrestare un declino a cui già in partenza si sa di essere destinati. Ragion per cui, un brano come “Lombroso”, che conclude il disco con una base di chitarra acustica (l’unico brano del lotto ad adottare questa soluzione) e con un feeling molto più scanzonato, sembra rappresentare la concessione ad un filo di speranza.

È proprio questo senso di profonda ineluttabilità a salvare l'esordio di Andreotti da una fin troppo facile stroncatura e a renderlo meritevole di ascolto. Vedremo come andrà in futuro, ormai fare previsioni è divenuto un atto senza senso, sempre ammesso che non fosse così anche prima. 


TAGS: 1972 | Andreotti | loudd | lucafranceschini | recensione