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REVIEWSLE RECENSIONI
29/11/2019
tha Supreme
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Si può criticare quanto si vuole, lamentarsi che si tratta di musica inascoltabile, lasciarsi andare ai soliti piagnistei passatisti all’insegna del: “Vuoi mettere…?” (completare con nome a caso di qualunque gruppo o artista anche solo minimamente rilevante tra il 1960 e il 1994) ma non c’è nulla da fare: tha Supreme è il presente, tutto il resto vive nel passato.

Parto da qui. Avrete senza dubbio sentito parlare di “The Game”, il libro dove Alessandro Baricco racconta l’origine di internet e della cosiddetta “rivoluzione digitale”, cercando di analizzarne il ruolo di rottura, di evidenziarne le ricadute negative ma anche, soprattutto, di individuare le prospettive inedite che l’umanità si ritrova davanti a sé. È un testo interessante e molto piacevole, che ho letto volentieri pur non amando per nulla lui come scrittore, proprio perché per una volta c’è un sessantenne che non fa la morale ai giovani coi soliti discorsi da vecchio solone rincoglionito. Non c’è uno che dice: “Ah, la generazione di oggi! Ai miei tempi sì che…” (completate con la sentenza più banale su qualunque argomento) bensì un individuo adulto che prova umilmente a capire in che modo e per che motivo la società umana sia stata messa letteralmente sottosopra nel giro di pochi decenni. E c’è una tesi interessante, che viene proposta in conclusione di lavoro: la rivoluzione digitale non ha reso il mondo più democratico e non l’ha reso migliore, semmai l’ha peggiorato e ha inasprito i divari tra i vari gruppi sociali. Occorrono dei correttivi, certo. Ma tali correttivi, tali misure di aggiustamento potranno essere messe in campo solo e soltanto dai nativi digitali. La soluzione non la troveranno i vecchi che sono nati ai tempi dell’analogico; la soluzione la troveranno coloro che sono venuti al mondo quando un certo cambiamento era già una realtà consolidata.

Cosa c’entra tutto questo con l’esordio discografico di tha Supreme è presto detto. Che Rap, Trap e in generale tutto il panorama Urban siano da qualche anno in vetta alle classifiche e all’ordine del giorno per quanto riguarda le preferenze dei giovani, è fuori discussione. Pre adolescenti e adolescenti ascoltano Salmo e Sfera Ebbasta esattamente come la mia generazione idolatrava Nirvana, Green Day, Metallica ed altri nomi vecchi e nuovi della scena rock. Se quando andavo a scuola io, entrare in una band era uno dei sistemi più efficaci per aumentare il proprio consenso sociale e fare colpo sulle ragazze, oggi, per dirla con Fabri Fibra, “A diciott’anni mica scopi se ascolti gli Slayer” e i ragazzi sognano piuttosto di diventare Beatmaker e di produrre un pezzo a Salmo. Che è esattamente quello che ha fatto Davide Mattei, meglio conosciuto come tha Supreme, quando il rapper sardo lo ha chiamato per “Perdonami”, una delle hit assolute dell’anno musicale 2017. Oggi Davide ha 18 anni e dopo altre collaborazioni illustri (Marracash, Dani Faiv, Nitro, Sfera Ebbasta, Gemitaiz, oltre ad essere tra i principali nomi coinvolti nel “Machete Mixtape vol.4”) e la pubblicazione di una manciata di singoli col proprio monicker, ha finalmente fatto uscire un disco tutto suo.

E qui, per tornare a Baricco, la faccenda è semplice: si può criticare quanto si vuole, lamentarsi che si tratta di musica inascoltabile, lasciarsi andare ai soliti piagnistei passatisti all’insegna del: “Vuoi mettere…?” (completare con nome a caso di qualunque gruppo o artista anche solo minimamente rilevante tra il 1960 e il 1994) ma non c’è nulla da fare: tha Supreme è il presente, tutto il resto vive nel passato. La musica non è finita, sta vivendo la sua storia come sempre senza mai fermarsi e si dà il caso che in questa contingenza la sua storia dice che quel che va per la maggiore è questa roba qui, che tha Supreme ha imparato a fare da dio, probabilmente meglio di chiunque altro, probabilmente anche riuscendo a rinnovare un po’ la ricetta (adesso ci arrivo). I giovani hanno fatto la fila per comprare questo disco (metaforicamente parlando, perché ormai si compra sopratutto online, ma lo hanno sicuramente comprato), così come lo hanno riprodotto in streaming ad un livello pazzesco (so di gente che ha aspettato la mezzanotte per ascoltarselo e poi si è presentata a scuola rincoglionita) facendogli battere il record per numero di ascolti totalizzati nell’arco di un solo giorno dall’uscita (siamo attorno ai 13 milioni).

E scusatemi, non vale dire: “Eh, ma i giovani non capiscono un cazzo!” perché sono i giovani, normalmente, ad avere il polso della situazione, a capire veramente dove sta girando il vento. Il mestiere degli adulti è invece, di solito, quello di sparare a zero su di loro pretendendo di avere il monopolio del gusto estetico. Non so se avete presente “Il mondo di ieri” di Stefan Zweig, quella sorta di autobiografia dello scrittore austriaco che è anche un po’ la storia intellettuale del mondo europeo a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo. Bene, c’è un episodio che mi ha sempre colpito, quando racconta che lui e i suoi compagni di liceo leggevano di nascosto le poesie di Rilke e se i professori lo scoprivano andavano fuori di matto, sostenendo che quella roba fosse spazzatura. Rilke, capito? Ma è evidente: ogni generazione ha i suoi eroi, i suoi modelli, puntualmente vituperati da quella precedente.

I giovani degli anni ’60 e ’70 ascoltavano Dylan e i Beatles, quelli degli ’80 si dividevano tra U2, Prince, Duran Duran o Spandau Ballet; nei ’90 c’è stato il Grunge, con Nirvana, Soundgarden, Pearl Jam, più avanti il Brit Pop, il revival “poppettaro” del Punk con gruppi come Green Day, Offspring, NOFX, ecc.

Certo, forse all’epoca si era un attimino più variegati, c’era una maggiore divisione in tribù, chi ascoltava questo non poteva ascoltare quello, ma in generale c’è sempre stata una musica o più musiche considerate come tipicamente generazionali.

Oggi la musica di riferimento dei giovani è il Rap, la Trap, l’It Pop, quello che volete voi. Che poi si è ibridato al punto tale che è difficile mettere paletti, individuare confini. Supreme probabilmente rappresenta il massimo grado di questa evoluzione. È un disco che parla un linguaggio tutto suo e che molto molto difficilmente un nato nello scorso millennio sarà in grado di capire. A partire dal titolo, che è semplicemente “Le basi” (quello che di fatto ha sempre prodotto lui) scritto in linguaggio leet (altro elemento che lo individua immediatamente come facente parte della rivoluzione digitale) ma che all’osservatore casuale suona come un numero a più cifre qualsiasi; i titoli delle canzoni, a metà tra il leet e il linguaggio alfabetico, con però il tocco di classe di inserire una numerazione crescente, in modo da seguire la successione della tracklist. E poi quella copertina, con il viola come colore dominante, lo stesso associato da sempre alla sua immagine, un avatar a cartone animato che porta una felpa con cappuccio tirato su, in pieno stile Street Wear (guardatevi i divertenti video di “scuol4” e “m8nstar” se volete farvi un’idea).

E poi, ovviamente, c’è la musica. Che è, senza troppi eufemismi, qualcosa di mai sentito prima. Oddio, su questo si potrebbe discutere, in molti avrebbero di sicuro da obiettare, definire i concetti di “nuovo” o di “mai sentito” è un’operazione non facile nella quale non ho intenzione di cimentarmi. Eppure mi vengono in mente le considerazioni che Riccardo Sinigallia faceva l’anno scorso in un’intervista: alla domanda su che cosa ne pensasse dell’attuale scena Rap/Trap italiana rispose che alcune cose le trovava interessanti ma in generale un po’ troppo standardizzate. Disse in sostanza che, se ti accosti ad un’auto che trasmette quel tipo di musica, alla fin fine quel che esce dagli altoparlanti è più o meno la solita roba, difficile distinguere un artista da un altro.

Indubbiamente c’è del vero, anche se questo discorso lo si potrebbe fare per quasi tutti i generi musicali. Detto questo, con tha Supreme non accade. La sua proposta suona fresca ma anche e soprattutto originale, accostabile e confrontabile con tante altre cose provenienti dallo stesso ambito ma allo stesso tempo profondamente diversa. Ora, io non so se tutto questo sia davvero “mai sentito prima”, non ho in mente quel che accade nel resto d’Europa e la scena americana la conosco solo in maniera superficiale. Sicuramente, però, in Italia non è mai esistito nulla di simile.

L’impatto iniziale è fragoroso, roboante, i Beat sono costruiti per sovrabbondanza, ci sono un sacco di cambi di ritmo e un sacco di elementi che intervengono a tenere il tempo e a scombinare le carte. Ci sono tantissimi suoni, tantissimi strati sovrapposti, in totale controtendenza rispetto alla sensibilità odierna, che vede la prevalenza di una produzione scarna e minimale.

Poi c’è la voce, utilizzata con massicce dosi di autotune ma allo stesso tempo con un controllo ed un’abilità per nulla consuete in questo ambiente. L’impressione è che Davide, che solo di recente si è cimentato in prima persona sulle proprie basi, sia un cantante capace e sufficientemente a proprio agio da poter sperimentare soluzioni differenti, variare linee melodiche ogni due per tre, in modo che in tutti i pezzi, che in media non durano mai più di due minuti e mezzo, accadano sempre un sacco di cose una dopo l’altra.

Insomma, non ci si annoia mai, i brani sono tutti molto diversi tra di loro e il numero e la qualità degli ospiti sono tali da arricchire ancora di più il tutto. C’è Salmo, c’è Dani Faiv, c’e Fibra (che ultimamente sta vivendo una vera e propria giovinezza coi featuring dei colleghi più giovani, prima o poi lo vedremo senz’altro in un nuovo disco tutto suo), c’è Marracash, c’è Mahmood, c’è MadMan, c’è Lazza, Nayt, Nitro, Gemitaiz e Mara Sattei. Insomma, non dico tutta la baracca ma un buona parte dei nomi che contano sì. E ciascuno dice la sua in maniera personale, con un vestito che gli è stato cucito su misura, in modo tale che si possa esprimere liberamente ma allo stesso tempo senza mai snaturare il marchio tipico dell’autore principale.

Il quale, sarà anche giovane, ma dimostra di conoscere bene la musica, anche quella del passato, se qua e là infila chitarre acustiche, orchestrazioni, flauti campionati e almeno due brani (“blun7 a swishland” e “sw1n6o”) dove ci sono chiare influenze del rock targato sixties.

I testi, da più parti dipinti come il punto debole del lavoro (in effetti c’è parecchia gente che sa fare meglio) vivono però di quella miscela di inglese e italiano, contrazioni e sintassi semplificata o del tutto assente tipica delle interazioni da Social. Gridate pure allo scandalo, gridate pure all’orrore ma io li trovo perfettamente amalgamati con la proposta musicale: rendono il flow irresistibile e completano quel mondo veloce e senza centro da cui di fatto le canzoni provengono. C’è un’apparente superficialità ma in realtà non sono l’espressione di una generazione senza ideali, come spesso si sente dire in giro: semplicemente, esprimono la consapevolezza che i desideri e le domande sue e dei suoi coetanei, non sono presi sul serio dal mondo degli adulti e che la scuola soprattutto non ha nulla di interessante da offrire loro (da insegnante, lasciatemi dire che in gran parte hanno ragione).

E teniamo in considerazione anche un altro aspetto: questo non è un disco arrabbiato e neppure arrogante, come spesso rischiano di essere certe produzioni Rap uscite di recente (“Scialla Semper” di Massimo Pericolo e il già citato “Machete Mixtape vol.4” sono esempi di lavori molto belli ma che a tratti non sono riusciti ad evitare di cadere in un certo tipo di narrazione stereotipata). Al contrario, supreme ha confezionato un album straripante di colori e di sensazioni positive, un affresco multiforme e cangiante tipico di chi affronta la vita con l’esuberanza della giovinezza e, quel che più conta, con tutta la consapevolezza dei propri mezzi. Prendetemi per il culo quanto volete ma per me questo è uno dei dischi dell’anno.


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