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REVIEWSLE RECENSIONI
01/12/2020
Seamus Fogarty
A Bag Of Eyes
Seamus Fogarty resta quello che già conoscevamo, insieme a A Bag Of Eyes: affidabile autore di brani ricolmi di echi del passato (sonoro), di parole e atmosfere cariche di malinconia, di rammarico per un mondo che potrebbe essere migliore.
di Andrea C. Sonicini

A leggere le note redatte da chi si occupa di veicolare A Bag Of Eyes – terzo disco di Seamus Fogarty dal 2012 e altrettanti EP – c’è da preoccuparsi: prima di iniziare l’ascolto pare convenga piazzarsi almeno qualche metro oltre l’apparecchio stereo – sarebbe bene ce l’aveste un impianto Hi-Fi, se vi dite appassionati ascoltatori di musica –; magari sistemarsi dietro una barricata di sacchetti di sabbia, o se manca il posto per una trincea dotarsi di un bastone per selfie col quale alzare il volume un po’ alla volta sempre mantenendovi a debita distanza dalle casse acustiche.

Sì, perché le delucidazioni di cui sopra mettono ansia, ammonendo testualmente che dentro A Bag Of Eyes ci sono “scossoni industriali, fuzz-guitar (svogliate), cacofonia di sassofoni”, in una canzone entra “un circolare rinculo di batteria dalla furia oscillante”, in un’altra “un synth è impiegato con l’evidente intento  di tagliare le orecchie dell’ascoltatore in due”. Sembra perfetto come colonna sonora del nuovo, ennesimo remake di Non aprite quella porta che prima o poi, vista la penuria di idee, arriverà.  

A questo punto, dopo esserti assicurato che minorenni e deboli di cuore sono fuori portata, ti fai il segno della croce, prendi coraggio e inizi ad ascoltare A Bag Of Eyes. Che sostanzialmente è ciò che ci si aspetta da un bravo songwriter già avvezzo a certi accorgimenti: uno che al proprio menu della tradizione – composto da un buon impasto di chitarra, banjo, violino, fisarmonica, armonica… insomma gli ingredienti basilari – ha aggiunto un manciata di pepe elettronico. In quantità facilmente digeribile. Non è la rivoluzione.

E lo stesso vale per A Bag Of Eyes nonostante i proclami da olocausto sonoro.

Una batteria elettronica usata in modo arcaico si aggiunge all’acustica che domina Old Suit, l’omaggio al vecchio (attore) Jimmy Stewart (il riferimento è a La finestra sul cortile), e Johnny K.

Nuns contiene la terrorizzante “cacofonia di sassofoni” che si compie in 20”.

Wake Up Felix e Interlude sono elettronica piena, vero, ma si tratta di due frammenti che superano a fatica il minuto. Come interruzioni pubblicitarie di un film visto in tv.  

Sarà un caso che i brani che battono tutti per distacco sono Bus Shelter Blues, Ghosts, My Boy Willie, elettronici allo stesso tasso di minerali che si trovano dentro certe acque in bottiglia?

Seamus Fogarty resta quello che già conoscevamo, insieme a A Bag Of Eyes: affidabile autore di brani ricolmi di echi del passato (sonoro), di parole e atmosfere cariche di malinconia, di rammarico per un mondo che potrebbe essere migliore. Sostanzialmente un tradizionalista che gioca con la tecnologia perché è tutta intorno anche nella musica, ma giusto per “vedere l’effetto che fa”, non certo per farne la sua nuova lingua.


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