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REVIEWSLE RECENSIONI
25/05/2022
Belle and Sebastian
A Bit of Previous
Anche il tempo dei Belle and Sebastian è finito da un pezzo, loro non se ne sono accorti e hanno sfornato quello che, quando verrà il momento di osservare il loro repertorio con opportuna coscienza critica, potremmo forse definire come uno dei loro più bei lavori di sempre.

Ogni artista e ogni band, è un qualcosa a cui credo fermamente, deve essere giudicato non solo per i singoli lavori che produce ma anche (e forse soprattutto) per il posto che di volta in volta occupa nella storia e nel contesto musicale del periodo in cui si muove.

Secondo questo metro, i Belle and Sebastian sono un gruppo del passato. Hanno vissuto la loro stagione di gloria a cavallo tra i Novanta e gli anni Zero, The Boy With The Arab Strap (1998) è il loro album più importante e più conosciuto, il precedente If You’re Felling Sinister (1996) e il successivo Fold your Hands Child, You Walk Like a Peasant (2000) rappresentano gli ulteriori due tasselli di una trilogia che, se non vi annoverate specificatamente tra i loro fan, bastano e avanzano per capire l’importanza che hanno avuto nella storia della cosiddetta musica indipendente.

Oggi che sono in giro da 25 anni più o meno, con una seconda fase di carriera ben più lunga di quel primo sfolgorante momento, la loro utilità è pressoché nulla, come del resto accade a chiunque (o quasi) sia attivo da più di un decennio: tolto il pubblico fidelizzato, tutti gli altri possono pure lasciar perdere.

Valga questa introduzione (che comunque ripeto ogni volta che ho da parlare di un nome “storico”, perdonate la noia) per inquadrare il loro nuovo lavoro, fatta pur salva qualche considerazione in più.

L’ensemble scozzese torna al formato album dopo ben sette anni di iato. In mezzo c’è stata una raccolta di EP (How to Solve Our Human Problems, che comunque era costituita unicamente da materiale inedito ed era bella corposa) e una colonna sonora (per Days of the Bagnold Summer di Simon Bird, anch’essa piuttosto ricca di canzoni nuove). Ciliegina sulla torta, un doppio live piuttosto piacevole anche se, come spiegai in sede di recensione, uscito fuori tempo massimo.

Scartando tutta questa roba, si scopre che Stuart Murdoch e compagni non pubblicavano un disco vero e proprio da quel Girls in Peacetime Wants to Dance che divise i fan per la massiccia presenza di sonorità elettroniche (ai tempi mi aveva soddisfatto e lo considero tuttora un buon lavoro ma è evidente che non sia all’altezza del resto della discografia).

Il senso di A Bit of Previous sta probabilmente nel suo titolo. Stuart lo ha spiegato a partire da una serie di riflessioni interessanti sul buddismo, sul concetto di reincarnazione e su come esso dovrebbe contribuire ad influenzare il nostro comportamento nei confronti delle persone che ci circondano.

Senza nulla togliere a questo, direi che possiamo anche farlo suonare come un’esplicita dichiarazione d’intenti: “Torniamo a quello che eravamo prima, quando eravamo giovani e stupidi ma sapevamo scrivere canzoni che facevano battere i cuori”. Non lo hanno detto loro, l’ho pensato io subito dopo l’ascolto di “Young and Stupid”, che apre l’album con un piglio che più Belle and Sebastian non si potrebbe: allegra, liberatoria, un po’ sbarazzina, mette in campo tutti gli ingredienti (ad esempio il violino e il flauto che orchestrano una base ritmica di chitarra acustica) che hanno reso sin da subito irresistibili le loro canzoni.

C’è aria di (voluto?) ritorno alle origini e la sensazione si rafforza man mano che si procede nell’ascolto. “If They’re Shooting at You”, con quella solita malinconia agrodolce da cameretta che divenne un marchio di fabbrica negli anni d’oro, “Sea of Sorrow”, “Do It for your Country” e “Deathbed in my Dreams”, dolcissime ballate senza tempo, voce in primo piano e arrangiamenti leggerissimi; “Talk to me Talk to me”, una delle migliori del lotto, col suo piglio rock, il ritmo sostenuto e il ritornello veramente splendido; “Come Home”, un certo feeling jazzato, bel gioco di voci tra Stuart e Sarah Martin, parti strumentali molto piacevoli, progressione melodica sempre ben congegnata. Sono tutti esempi, questi appena fatti, di brani che, formula retorica ma concetto veritiero, non hanno niente da invidiare ai classici e che riportano il gruppo ad uno stato di forma che non si vedeva da tempo.

Sarà una coincidenza ma c’è anche un altro dato significativo da tenere in mente: avrebbero dovuto registrare a Los Angeles, poi c’è stata la pandemia e sono dovuti rimanere nella loro Glasgow, città dove non incidevano nulla da quel Fold your Hands… di cui si è parlato. Quanto abbia beneficiato il ritorno a casa, per una band da sempre legata, anche a livello narrativo, alla propria comunità di appartenenza, può essere facile immaginarlo ascoltando il prodotto finito, nello scoprire che suona quasi come le cose di venti e passa anni fa.

Non che abbiano rinunciato del tutto alle variazioni stilistiche, comunque: “Reclaim the Night”, cantata dalla Martin, li vede cimentarsi con un Synth Pop di stampo Eighties, per un brano nel complesso molto piacevole; “Prophets on Hold” ha sempre i Synth in primo piano ma è più smaccatamente ruffiana, riuscendo comunque a conservare tutta una sua algida piacevolezza, senza troppo uscire dalla comfort zone del gruppo (by the way, contiene pure quello che potrebbe essere il miglior ritornello del disco). “Unnecessary Drama” comincia tiratissima, con un’armonica prepotente e rumorosa, per quello che potrebbe risultare uno degli episodi più “rock” della loro carriera. E poi c’è il finale di “Working Boy in New York City”, con una vaga reminiscenza dei Divine Comedy e delle loro visioni edulcorate e classiciste.

Insomma, se anche il tempo dei Belle and Sebastian è finito da un pezzo, loro non se ne sono accorti e hanno sfornato quello che, quando verrà il momento di osservare il loro repertorio con opportuna coscienza critica, potremmo forse definire come uno dei loro più bei lavori di sempre. In fin dei conti, chi l’ha detto che bisogna sempre e comunque essere attuali, per essere amati?