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REVIEWSLE RECENSIONI
03/11/2023
Hilary Woods
Acts of Light
Con “Acts of Light” Hilary Woods ci regala un disco dal fascino ossianico, rivestito di una patina polverosa e dolente. L’amalgama di registrazioni ambientali, elettronica, cori e sequenze eseguite al cello e alla viola crea una texture musicale gotica e dal color seppia che incanta nel suo mistero, in una “fuga musicale” composta da nove ipnotici lamenti.

Il percorso musicale realizzato da questa ragazza, oramai divenuta donna e madre, ha dell’incredibile. Musicalmente nata come bassista del gruppo JJ72, che ebbe un momento di gloria indie alla fine degli anni 90 - inizio 2000, dopo un lungo digiuno musicale, passando alle produzioni soliste del primo album Colt (2018) e di Birthmarks (2020), composto durante la prima gravidanza con toni molto distanti dalla usuale retorica mainstream (anche musicale) connessa alla circostanza di divenire madre, la musica della Woods si è via via incanalata nella ricerca di suoni ed ambientazioni di una tonalità sempre più oscura.

In quest’ultimo disco, pubblicato come i precedenti per la label di riferimento Sacred Bones (tra i cui artisti ricordiamo Zola Jesus, John Carpenter, Soft Moon e tanti altri) la musicista irlandese viene a lambire un terreno assai prossimo alla cosiddetta dark ambient, caratterizzata da un forte accento di sonorità organiche, forse anche a seguito della decisione di non incidere, a differenza che negli album precedenti, parti vocali cantate.

Mi spiego meglio: il genere dark ambient, per i pochi che ancora non lo abbiano in alcun modo sfiorato o seguito nei propri percorsi musicali, si caratterizza per i suoi “arcani” loops di synth, tesi ad evocare paesaggi spettrali, orridi montani o spazi claustrofobici, il tutto molte volte condito da campionamenti di organi chiesastici, spezzoni di cori gregoriani, rumore di catene agitate, rintocchi di campane a morto, il tutto per creare un senso di apocalisse, di orizzonti di rovine, e fine del mondo.

 

La produzione di tale genere, a partire dalle classiche produzioni svedesi degli inizi anni Novanta della Cold Meat Industry, con in cima Raison d’Etre, è oramai sterminata e molte volte, occorre dirlo, abbastanza soporifera.

Sinceramente non sono sicuro che la Woods possa riconoscersi in tale corrente musicale, ma l’effetto dei brani del suo ultimo album, perlomeno al mio orecchio, risulta di fatto fortemente influenzato da un’atmosfera di mistero, fortemente oscura, che richiama il genere sopracitato, depurato tuttavia dagli effetti di gran guignol che in molti casi gli adepti del genere adottano, in altre parole una sorta di musica organica fortemente colorata da una tonalità che nella lingua francese viene definita sombre.

Infatti, l’amalgama tra field recordings, l’utilizzo di strumentazione elettronica, e gli inserti dei cori della città di Galway (residenza della musicista) e del Palestrina Choir di Dublino, unito a brevi sequenze musicali eseguite dal cello e dalla viola, risulta non scontata e strutturata con grande sapienza, si pensi ad esempio al pezzo introduttivo “burial rites” o il brano “where the bough has broken”.

Il risultato finale risulta essere un texture musicale virata, come nelle fotografie d’epoca richiamate dalla copertina dell’album, ad un effetto “dust/seppia”, che rimanda anche visivamente alla tradizione “gotica” che, anche dal punto di vista del genere letterario, trova il suo fondamento nell’Inghilterra dalla seconda metà dell’Ottocento.

Sotto questo profilo, un altro brano fortemente evocativo risulta essere “ochre” dove, alla pari del successivo “awakening”, le note dolenti degli strumenti ad arco utilizzati emergono da un fondo brumoso di suoni processati elettronicamente.

 

Ecco se devo trovare una nota di fondo rispetto al suono di questo disco, mi sembra che sia come rivestito di una patina polverosa e dolente, confermando quanto indicato nei flyer di presentazione, ove il presente album viene indicato come una sorta di fuga musicale, composta da nove lente nenie (lamenti) ipnotiche “nine slow hypnotic dirges”, di cui uno dei vertici risulta essere il brano “blood orange”.

In conclusione, un disco non certo permeato da sonorità solari, ma con un fascino ossianico che non potrà non attirare gli amanti di quello che un altro dei padri dei maudits, anzi forse il primo, ovvero Baudelaire, chiamava “spleen”.