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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
29/06/2020
Luca Swanz Andriolo
Alone vol.3: la violenza in una nebbia di polvere
Marco Cazzato gli ha dato la faccia, il corpo di una libellula, come la trasformazione, come l’abbandono dei riferimenti primari, come il ritrovarsi soli in un deserto di scelte. Quanto è difficile parla di violenza. Marok gli ha dato il suono e io, per questo terzo episodio di Alone, fermo Luca Swanz Andriolo per le mie solite domande poco ordinarie…

“Il futuro ha i denti marci, il presente sfugge, il passato è un cimitero” (Luca Swanz Andriolo).

Penso possa bastare un bicchiere di rum, una sigaretta, un ferro vecchio che sia capace di suono e poche anime speciali davvero con cui condividere il tempo… penso possa bastare un sogno da avere dentro le tasche e la forza di non perderlo, questo maledettissimo tempo, dietro le tante facciate inutili di questa contemporanea abitudine che abbiamo di apparire soltanto.

Ci troviamo all’alba del quarto volume. Io però come sempre non ho l’orologio al polso e non ho alcun interesse di rispettare i trend e i tempi del marketing. Tanto la musica, quella vera, resta. Non ha tempo, per quanto il tempo lo canti, come dice anche Luca Swanz Andriolo. Scrivo se e quando ho del sale sulle gengive e non ho voglia di levarlo via. Ma è vero che il IV volume di questo never ending album è appena uscito ed io sono qui a parlare ancora di questa “Palude” uscita 6 mesi fa, dei tempi prima dell’apocalisse sociale. Ormai è un dogma di fede questo suono, e Marok promette sempre di sprigionare una potenza visionaria che ha limiti solo negli stolti accecati dai social e dalle apparenze dei click. Questa volta è la violenza il tema portante, Loletta e la sua storia, penso io, un percorso che si dipana in sole 3 incisioni di cui soltanto la prima celebra i canonici pochi minuti del nostro tempo stupidamente impegnato nel nulla… le altre due tracce di questo disco, questo maledetto tempo, lo polverizzano in distese lunghe che non hanno fine.

Ho veduto una nebbia che poi ho capito esser fatta di polvere… è la polvere che si alzava al limite dell’orizzonte e Marok ti spinge a calci nel verso giusto della paura… non ti benda gli occhi e non mette zucchero sulle ferite. Incalza, il tempo e l’ostinazione, rende concitato il fiato dove soltanto la voce “recitante” di Luca Swanz Andriolo che canta i versi di Nina Maroccolo (in inglese per lui, in italiano da lei) restituiscono un appiglio per niente accomodante per lo spirito e per la pace. Non ha pace questo disco, non ha tempo per la contemplazione… ha solo tempo da dedicare al caos e alla quiete apparente che arriva dopo… quella sì che stupidamente si contempla.

Questa volta c’è il ferro energico del suono urbano, apocalittico e cittadino… inevitabile colpo alla coscienza quando la chiusa del disco è celebrata dal silenzio dei suoni ambientali, dove anche quelli che sembrano uccelli cantare restituiscono una normalità al caos che abbiamo alle spalle. Ma il caos che poggia sulle nostre spalle ha significato violenza… e pare che la violenza (alle donne, agli ultimi) alla fine riesca anche a farsi accettare, a farsi perdonare, lasciando a noi stessi il lusso macabro di rigirare le morali e le parole buone perché tutto torni come in una violenta quanto terrificante parvenza di normalità. E questa chiusa non poteva che titolarsi “Catene”. Ho cercato le ragioni del tempo e i legacci di pelle e di terra che uniscono Marok e il suo concetto di suono a questa voce di Luca Swanz Andriolo che ha sempre affascinato i miei ascolti. Ci si ubriaca in ogni modo possibile… perché alla fine la violenza - per chi osa giustificarsela addosso - altro non è che droga finissima che ubriaca e che copre gli occhi di sabbia e che alla fine, paradossalmente, “spiega” la nostra colpa di essere “sbagliati”. Marco Cazzato gli ha dato la faccia, il corpo di una libellula, come la trasformazione, come l’abbandono dei riferimenti primari, come il ritrovarsi soli in un deserto di scelte. Quanto è difficile parla di violenza. Marok gli ha dato il suono e io, per questo terzo episodio di Alone, fermo Luca Swanz Andriolo per le mie solite domande poco ordinarie…

Questo disco, sottotitolato “Palude”, in qualche modo “ristagna”, congela il tempo… questi tre momenti, queste tre tracce del disco sono come bolle entro cui galleggiare. Questa è la mia prima istintiva visione che arriva dopo tanti ascolti. Dimmi la tua…

Il disco stupisce anche me. È magmatico e sospeso, ricorsivo. Persino il testo si succede in modo inaspettato, rispetto a ciò che ho letto la prima volta. Parla di violenza, di trauma, di rimosso, di rinascita. Ma è come se potesse ricominciare, una volta finito.

Che poi tu, come artista, da sempre hai bloccato il tempo in un passato di “cose vecchie” nascoste in cantina piuttosto che in una vecchia soffitta. La tua voce e il tuo modo di vivere e di pensare alla musica sono sempre stati figli di un’America anni ’30 (tanto per fare metafore) più che di un’Europa di questo futuro. Non so se sei d’accordo…

Per quanto riguarda il mio progetto solista, Swanz The Lonely Cat, che è basato principalmente sul banjo, è indubbiamente così. I Dead Cat In A Bag, invece, non hanno un’epoca di riferimento, neppure una geografia: possono suonare Tex-Mex o Klezmer, Country-Rock o Blues elettrico, elettronica o valzer musette. L’America è solo uno dei posti possibili: tutta la musica è un viaggio continuo. Certo, siamo distanti dalla moda del momento, magari, ma anche su questo devo confessare di ascoltare spesso le ultime uscite chiedendomi che cosa possa esserci da rubare a livello di suoni, che cosa ci sia da cacciare nel nostro sacco polveroso. Spesso non trovo nulla, ma a volte sì.

In generale che rapporto hai con il tempo?

Pessimo. Lo canto sempre come se fosse la condanna peggiore. Il futuro ha i denti marci, il presente sfugge, il passato è un cimitero.

Ad ogni modo hai incontrato più volte la scrittura di “Alone”… come l’hai accolta, quanto c’è stato di tuo e quanto ciò che era tuo è stato utile a realizzare le visioni di Marok? Oppure, pensando con una dose di romanticismo in più, quanto hai potuto e saputo contaminare il mondo di “Alone” di visioni tutte tue?

Nel primo volume ho scritto il testo. Il tema era la normalità. È una lirica di cui sono soddisfatto, molto lontano dai cliché maledetti a cui talvolta mi sento avvicinato; lo renderò una canzone vera e propria nel disco che sto realizzando insieme a Stella Burns. Ho avuto solo una richiesta e assoluta libertà. Sul terzo volume, invece, ho tradotto un testo di Nina Maroccolo, molto universale e insieme personale, allusivo, musicale. Musica e testo non erano legati e lo speech è stato fatto inizialmente sul silenzio.

Tra l’altro quando penso al tuo percorso artistico ho sempre in mente colori scuri, magari bianchi e neri che si giocano il mondo a dadi. E non è solo il suono di “Alone”, che sembra somigliarti un poco, sempre secondo le mie impressioni… ma anche quel certo modo di pensare alle grafiche che ha Marco Cazzato sembra avere la tua stesa faccia. Sei d’accordo?

Devo dire che mi ritrovo un poco in tutto, ma probabilmente è per questo che sono stato chiamato.

E se ti chiedessi quale immagine tua personale useresti per raccontare questa palude?

Mi viene in mente l’acquitrino in bianco e nero del film “Angelo Ubriaco” di Kurosawa. O una serie di fotografie che ho fatto tanto tempo fa, quando facevo mostre, che io chiamavo Affioramenti. Si trattava di pozzanghere, canali, pozzi, fanghi, acque di scolo, in cui oggetti inaspettati si ergevano come relitti, mezzi sepolti e sprofondati. C’era qualcosa di monumentale.

In questo disco si parla di violenza, violenza contro le donne, contro i deboli, contro gli ultimi. Ecco, mi fermo sul concetto degli ultimi. In qualche modo, gli ultimi, la vita ai margini, la dissoluzione sono tematiche che - in un modo più romantico, bohémien e se vuoi anche artistico e visionario - mi riportano alla tua musica, soprattutto al tuo modo di vestirla. Non ho dimestichezza con l’inglese, vorrei potermi soffermare di più sulle liriche ma non ne sono capace ora, così su due piedi. Parliamo di visioni invece. Quel modo di “libera follia ubriaca” che hai di vivere i suoni e le melodie… chissà se sto delirando Luca… chissà invece quanto questo riferirsi agli ultimi (con tutte le derive possibili) sia l’ennesimo ponte di connessione verso questo disco…

Sono un banjoista anarchico e – se non proprio tra gli ultimi – credo di aver posto trai penultimi. Per il resto, alcuni dei miei generi di riferimento, dal folk al blues, al country, hanno spesso a che fare con la retorica degli sconfitti e degli emarginati. Personalmente, non frequento troppo quei topoi, mantenendo la narrazione su aspetti magari non esaltanti del quotidiano, senza mimesis sociale o poetica. Alla fine, benché non sia sempre così, il personaggio delle canzoni potrei sempre essere io stesso, quindi non un hobo perso nella dust bowl.

L’ascolto di “Alone vo.3” l’ho figurato così: equilibrio iniziale, rottura, violenza, concitazione e furia, paura che arriva dopo la resa e poi un equilibrio finale fatto di contemplazione… e proprio la chiusa del disco, con questi suoni ambientali di apparente normalità mi sbattono in faccia quanto sia facile far finta che non sia successo nulla…

Il testo parla di una caduta, in effetti. Nina ha un mondo tutto suo. Marok è imparagonabile a chiunque altro, forse è uno degli artisti più visionari (paradossalmente, visto che si occupa di suono!) che abbiamo. E ha conservato questo coraggio, questo gusto per l’avventura attraverso un passato importante e forse persino ingombrante. Ecco, lui vive nel proprio tempo, che è un presente.

Torniamo con i piedi nella quotidianità. Secondo te oggi, la libertà compositiva di un progetto come “Alone” quanto riesce a far breccia in un pubblico sempre più povero di potere critico, di fantasia e di capacità di ascolto? Sempre se sei d’accordo con me su questo quadro assai nichilista…

Sono ancora più pessimista di te. La gran parte della musica di consumo è muzak. Persino l’indie non è più che un pop sanremese suonato peggio e spesso con testi ammiccanti e infantili. Il ricatto identitario e l’appiattimento sono evidenti e desolanti. Persino la cosiddetta musica d’autore è confinata a scimmiottamenti dei classici o goffi tentativi di modernità che consistono principalmente nell’elencare luoghi comuni stonando disinvoltamente. Ma proprio per questo, alcuni dischi sono importanti, nella loro alterità. E credo che siano quelli che gli audiofili vogliano possedere in vinile, mentre il resto si riduce spesso a un singolo ascoltato al cellulare.

Se questo disco fosse un film… secondo te che sembianze avrebbe?

Per me sarebbe un film di Elem Klimov.

Chiudo promesso. Ultima parola che mi permette di veder chiaro un forte legame tra te e “Alone” è proprio la solitudine. E penso che sia a pieno il DNA di questo lungo progetto di Marok. Quanto ti vedi dentro questa solitudine?

Mi ci rivedo, ma sono anche molto lamentoso e a volte nascono delle geremiadi molto blues… che poi diventano canzoni.


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