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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
23/11/2020
Grateful Dead
American Beauty (50Th Anniversary Edition)
La domanda è d'obbligo: cosa contiene, questa nuova edizione, per meritare l'acquisto anche da parte di chi possedesse già una o più delle numerose ristampe che si sono susseguite nel corso degli anni?

Mette i brividi pensare che l’ultimo concerto dei Grateful Dead assieme a Jerry Garcia (e quindi l’ultimo concerto dei Dead in assoluto, non importa che cosa si possa dire o pensare del tour d'addio del 2015) si sia concluso con “Box of Rain”, canzone raramente proposta dal vivo, scritta da Robert Hunter su una melodia fischiettata dal bassista Phil Lesh, toccante affermazione della bellezza del vivere, nel momento in cui il padre di quest’ultimo si stava spegnendo per un cancro. 

I fan se lo sono chiesto per anni (e ancora se lo chiedono, immagino): Jerry sapeva che sarebbe morto esattamente un mese dopo? Scelse di suonare quel pezzo al posto di “Brokedown Palace” (che normalmente chiudeva la data finale di ogni tour, e quella di Chicago lo era) come personale addio al proprio pubblico? 

Impossibile dirlo e probabilmente la risposta è no, nonostante chi c’era, su e giù dal palco, lo ricordasse provato e distratto per gran parte dello show. 

Ma oggi che “American Beauty” compie 50 anni e viene ristampato in edizione speciale, esattamente come toccherà a tutta la discografia del gruppo prima o poi, appare inevitabile tornare con la mente a quell'episodio. 

“Box of Rain” è una delle più belle canzoni dei Grateful Dead e, curiosamente, ha il compito di aprire quello che per molti è il loro lavoro migliore anche se la maggior parte dei fan accaniti non direbbe la stessa cosa. “American Beauty” è un episodio particolare, nella discografia della band californiana: è il disco più famoso, quello che tutti ricordano, che tutti citano, a partire dalla splendida copertina con la rosa in primo piano, che Sam Mendes, non so se consapevolmente o meno, omaggiò in una celebre scena del suo omonimo film d'esordio. 

Eppure, come spesso avviene per i gruppi conosciuti e blasonati, l'album più celebre non è quello che li rispecchia appieno. I Dead di fine Sessanta erano noti soprattutto per la loro componente psichedelica e le loro Jam infinite e anche se i dischi in studio realizzati fino a quel momento non erano riusciti a catturare il magnetismo e la potenza che sprigionavano sul palco, lavori come “Anthem of the Sun” e “Aoxomoxoa” erano tutto tranne che accessibili e lasciavano intravedere la stessa spigolosità di suono che si ascoltava durante i concerti.  

“American Beauty” continuò invece sulla strada del predecessore “Workingman's Dead”, uscito appena quattro mesi prima: sonorità prevalentemente acustiche, atmosfere Folk, focus sulle armonie vocali e tante ballate. Una proposta senza dubbio più digeribile, che infatti venne premiata da un numero di vendite altissimo, per quelli che erano gli standard del gruppo (giusto per dare un’idea, un singolo come “Truckin” rimarrà per 17 anni la loro più grande hit, e stiamo parlando di una canzone che non andò più in là del 68esimo posto in classifica). 

E non sarebbe neppure così impossibile raccontare il 1970 come l’anno in cui Garcia e soci misero in soffitta la psichedelia, ponendo tale scelta in relazione con quello che accadde nel periodo immediatamente precedente: la tragedia di Altamont, il massacro di Cielo Drive, l'escalation della guerra del Vietnam, con Nixon che autorizza bombardamenti in Cambogia senza informarne il Congresso, gli scontri alla Kent State University, in Ohio, durante i quali tre Weathermen vennero uccisi dalla polizia, lo scioglimento dei Beatles. Insomma, tutti quei fatti che qualunque manuale di storia associa comunemente alla fine della Summer Of Love. 

Gli stessi Grateful Dead non se la passavano benissimo: “Aoxomoxoa” era costato tanto e aveva venduto poco, alla Warner non erano contenti e il gruppo era costretto a suonare più di quanto avrebbe voluto, per rientrare con le spese. I problemi di droga si facevano sentire (famoso l'episodio di New Orleans del gennaio 1970, quando furono arrestati a seguito di un blitz della narcotici nell'hotel dove alloggiavano) e a ciò si aggiungevano vicende personali di vario tipo: la morte del padre di Lesh e della madre di Garcia, il loro manager Lenny Harth (il padre di uno dei batteristi, Mick) che scomparve sottraendo al gruppo una grossa somma di denaro, avvenimento che manderà in crisi il figlio, al punto da fargli decidere più tardi di lasciare la band (tornò solamente tre anni dopo), e i problemi di salute sempre più gravi del tastierista Ron “Pigpen” McKernan. 

“Workingman's Dead” aveva spiazzato pubblico e critica ma era stato anche grandemente apprezzato. L'idea era di tornare in studio al più presto e di registrarne una sorta di seguito, anche perché le nuove canzoni non scarseggiavano. 

“American Beauty”, registrato ad agosto e pubblicato a novembre, si muove sulle stesse coordinate stilistiche del suo predecessore anche se complessivamente risulta più vario. 

Jerry Garcia utilizza tantissimo la Pedal Steel (uno strumento che, a detta sua, era troppo difficile da suonare, ragion per cui in seguito non vi si dedicò molto) e c’è il contributo di alcuni ospiti esterni, tra cui Dave Torbert, che suona il basso su “Box of Rain”, Ned Lagin e Howard Wales, che si occupano di tutti gli inserti di organo e pianoforte e David Grisman, che impreziosisce col suo mandolino “Ripple” e “Friend of the Devil”. 

Non ci sarà l'impronta classica dei Grateful Dead, non conterrà le Jam cosmiche con cui i fan del gruppo amavano farsi i loro viaggi ma è indiscutibile che “American Beauty” sia pieno di belle canzoni. 

Oltre alla già citata “Box of Rain” c’è ovviamente “Friend of the Devil”, che Garcia scrisse assieme al vecchio amico John Dawson e che diventerà uno dei loro brani più famosi, una presenza costante anche nelle setlist dei concerti. Ci sono toccanti ballad acustiche come “Candyman”, “Attics of My Life”, “Ripple” e “Brokedown Palace” ma è un disco che mantiene un livello alto anche quando vira su tonalità più Blues (“Truckin”) e Roots (“Sugar Magnolia”, altro futuro classico dal vivo). 

Ci sono un paio di episodi in tono minore (“Operator”, unica canzone del loro repertorio scritta interamente da Pigpen, è gradevole ma nulla più e anche “Till the Morning Comes” ha un po’ l'aria del filler) ma nel complesso è un lavoro pienamente riuscito, per chi scrive superiore al suo “gemello”. 

A questo punto la domanda è d'obbligo: cosa contiene, questa nuova edizione, per meritare l'acquisto anche da parte di chi possedesse già una o più delle numerose ristampe che si sono susseguite nel corso degli anni? Tralasciando la mia opinione su tutta questa campagna di reissue che pare avere come unico scopo quello di spillare soldi alle uniche generazioni che ancora spendono per la musica, vale a dire quarantenni, cinquantenni e sessantenni, occorre dire che in questo caso non si tratta di portarsi a casa un mero doppione da sistemare nello scaffale. Al di là dell’operazione di remastering (ma è l'ennesima, non credo esistano molte orecchie umane in grado di cogliere la differenza) i punti d'interesse sono due: le note di copertina di David Browne, storica firma di Rolling Stone, ricche e dettagliate, che raccontano in maniera avvincente il disco e il contesto in cui è nato; ma soprattutto, la presenza di due dischetti aggiuntivi contenenti un concerto inedito del gruppo. Si tratta della data del 18 febbraio 1971 al Capitol Theater di Port Chester, New York, tre giorni prima di quella che era invece stata inclusa nell'edizione speciale di “Workingman's Dead” uscita questa primavera). La qualità della registrazione è superba, come accade tutte le volte che buttano fuori un nuovo live dagli archivi, e il periodo scelto è interessante, perché fotografa in pieno la fase di passaggio dalla band psichedelica del decennio precedente alla macchina da guerra Classic Rock che sarebbero divenuti in seguito. 

Ci sono le prime esecuzioni assolute di cinque pezzi (“Bertha”, “Wharf Rat”, “Playing in the Band”, “Greatest Story Ever Told”, “Loser”) che sarebbero divenuti protagonisti dei futuri concerti. E c'è anche una "Dark Star" da brividi, un'esecuzione tanto più preziosa perché di lì a non molto non la si sarebbe più sentita tanto spesso. Meno dilatata del solito, con il debutto di "Wharf Rat" nel mezzo, questa porzione finale del primo set costituisce uno degli highlight assoluti dello show, nonché l'unica porzione in cui la componente lisergica del gruppo venga fuori in maniera esplicita.

Solo tre canzoni da "American Beauty" (“Truckin”, che offre lo spunto per una lunga improvvisazione, “Sugar Magnolia” e “Candyman”, uno di quegli episodi che dal vivo sarebbe migliorato esponenzialmente col passare degli anni) ma tanti motivi di interesse tra cui una emozionante "Me and Bobby Mc Gee", la cover di Kriss Kristofferson che non può non suonare come un ultimo saluto a Janis Joplin, scomparsa pochi mesi prima. E poi il finale, con una roboante versione di "Not Fade Away" e una sempre efficace “Goin' Down the Road Feeling Bad”. 

Vi diranno che è l'ennesimo live dei Dead ma se dovete iniziare, potrebbe essere utile farlo da qui: non esiste un disco in studio che sia davvero rappresentativo di quello che sono stati, per cui tanto vale iniziare da quello che è il più famoso e il più accessibile, con l'aggiunta di un concerto che permette di toccarne con mano tutta la grandezza e schiude la porta di quello che sarebbero divenuti di lì a poco. 


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