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REVIEWSLE RECENSIONI
11/12/2017
Anti-Flag
American Fall
Quale momento storico migliore per un nuovo disco degli Anti-Flag? In un mondo sconvolto dalla minaccia delle guerre e dal nazionalismo di estrema destra, dalle ingiustizie socio-economiche e dal razzismo, la band di Pittsburgh ha ancora qualcosa da dire.

Sin dal loro debutto nel 1996 con Die for the Government, gli Anti-Flag sono stati dei combattenti. Esplicitamente appartenenti alla corrente più politica del punk, sono impegnati da sempre nel sociale e nel campo dell’attivismo, supportando regolarmente (tra gli altri) Amnesty International, PETA, Greenpeace e Sea Shepherd. Nessuna sorpresa quindi se, dinnanzi all’ascesa di Donald Trump e ai movimenti globali odierni, il quartetto della Pennsylvania ha accordato le chitarre e acceso gli amplificatori.

Dopo la parentesi con la major americana RCA, con la quale sono stati pubblicati For Blood and Empire (2006) e The Bright Lights of America (2008) e con cui sono state toccate le vette musicalmente più commerciali della band, e il ritorno all’auto-produzione con The People or the Gun (2009) e The General Strike (2012), con cui la band è tornata ai suoni più spinti delle origini, il nuovo album degli Anti-Flag viene prodotto nuovamente dalla Spinefarm Records, etichetta finlandese specializzata in metal con cui la band lavora dal 2015. American Fall, infatti, segue a ruota il fratello American Spring (2015), di cui risulta la continuazione. I suoni, puliti e diretti, risultano meno rabbiosi rispetto a quelli delle origini e alla fase 2009-12, tornando a strizzare l’occhio agli anthem e ad alcuni sprazzi di ska-punk sperimentati in Terror State nel 2003. Non a caso, verrebbe da dire, visto che quest’ultimo si contrapponeva al governo di George W. Bush.

Contrariamente a quanto si possa pensare, è proprio nel momento in cui le battaglie politiche e sociali si fanno più spinose, violente, pericolose e dannose per la comunità che gli Anti-Flag si distaccano dai suoni più crudi. La ragione è semplice, e si può ritrovare sulla semplice scritta che compone la copertina del libretto: “United they fall”. È solo aprendosi ai cori e agli inni da cantare con la mano che batte sul petto, in piedi accanto al proprio vicino, che si può creare, anche solo per lo spazio di un concerto o della trentina di minuti in cui si ascolta il disco, la comunità che può cambiare lo status quo. Detto questo, nessuna paura: il suono è inguaribilmente punk rock. L’atteggiamento è incendiario come sempre e il cantato di Justin Sane (sempre aiutato dal carismatico bassista Chris#2) sputa veleno senza alcuna paura. Sono infatti i testi a fare la differenza. Se si superano i primi ascolti, in cui si è attratti inevitabilmente dal lato più propriamente musicale ed in cui si pensa immediatamente a raffronti con il pop-punk più mainstream, e ci si inizia a concentrare sulle parole, l’album cambia volto. La violenza, la rabbia e la determinazione che vengono riversate in testi come quelli di “The Criminals”, “Racists” o “When the Wall Falls”, rendono immediatamente più incisive e potenti le canzoni, che divengono subito equiparabili alle esplosioni più hardcore di “Liar” e “Digital Blackout”.

Il messaggio che gli Anti-Flag cercano di condividere con il mondo non è mai cambiato, ma in un panorama nazionale e mondiale come quello odierno, accecato dal “blackout digitale”, dalle fake news, dal bigottismo e dalle paure, avere qualcuno che tiene ancora alta una bandiera che recita “Anti-racist. Anti-sexist. Anti-fascist” risulta ancora più vitale.

Cosa aggiungere quindi, se non le poche frasi che concludono il loro libretto (tradizionalmente completo di una serie di brevi articoli e saggi sugli argomenti trattati) e che sintetizzano in poche parole tutto il loro approccio al punk: “Questa musica esiste con il solo scopo di creare una comunità. Le persone dovrebbero essere libere di essere se stesse, senza alcuna paura di giudizi o di violenze. Se ti senti solo, non lo sei”.