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REVIEWSLE RECENSIONI
Ants Up Here
Black Country, New Road
2022  (Ninja Tune)
IL DISCO DELLA SETTIMANA POST-PUNK/NEW WAVE
8/10
all REVIEWS
07/02/2022
Black Country, New Road
Ants Up Here
Scrivere queste righe nel momento in cui viene resa pubblica la notizia che Isaac Woods, cantante, chitarrista e paroliere, ha deciso di abbandonare i Black Country, New Road dona a questa recensione un senso di straniamento. Sarà difficile ascoltarlo nello stesso modo, ma questo non cambia la sostanza: i Black Country, New Road sono tornati e sono tornati alla grande, qualunque cosa succeda in futuro.

Scrivere queste righe nel momento in cui viene resa pubblica la notizia che Isaac Woods, cantante, chitarrista e paroliere, ha deciso di abbandonare i Black Country, New Road dona a questa recensione un senso di straniamento che ancora non riesco a decifrare bene. Così a caldo le considerazioni sarebbero tre: la prima, banale, è che finalmente potremmo aver scoperto il motivo di tutti quegli annullamenti che, a partire dalla data al TOdays Festival di agosto, ci hanno impedito di testare la resa di For the First Time in sede live. La seconda prende le mosse da quello che lo stesso Isaac ha scritto sui suoi profili social, ed è che in questa “società della stanchezza” le paralisi ansiogene e gli attacchi di panico sembrano essere divenuti ordinaria amministrazione anche per chi svolge lavori di grande esposizione mediatica (ve lo ricordate, per dirne una, il caso della ginnasta americana Simone Biles alle recenti Olimpiadi di Tokyo?). La terza e ultima, che evidentemente questa defezione cambia la prospettiva con cui il mondo musicale si accingeva ad accogliere il secondo disco (quello della possibile consacrazione?) di uno dei protagonisti assoluti della scorsa annata.

I suoi compagni hanno dichiarato che andranno avanti lo stesso e non ho dubbi a riguardo, visto che il nucleo fondante del gruppo è insieme da parecchio tempo (ve li ricordate i Nervous Conditions? Io no, eppure li avevo visti dal vivo in tempi non sospetti, me lo hanno dovuto ricordare perché li avevo rimossi). Eppure, diciamolo chiaramente, potrà mai essere la stessa cosa? Considerata la personalità di Woods, sia nello stile vocale che nel modo di assemblare i testi, fatichiamo davvero a crederlo: potranno anche non cambiare nome ma è evidente che il disco di cui mi accingo a parlare rappresenta un punto di arrivo, la conclusione forzata di una fase il cui seguito non è ancora dato prevedere.

Cerchiamo allora di capire come sia questo Ants Up Here, considerato tuttavia che, come ormai va di moda, una buona metà ne era già stata anticipata in questi ultimi mesi, di fatto quello che il resto del mondo ancora non conosce si riduce giusto ad una manciata di brani, seppur corposi.

Lo hanno registrato con Sergio Maschetzko, il loro tecnico live sin dagli inizi, e con l’ingegnere del suono David Granshaw: un binomio inedito che ha funzionato particolarmente bene e che ha saputo cogliere appieno quella carica magnetica che i sette sanno sprigionare quando suonano assieme nella stessa stanza. Un qualcosa che non sono riusciti a fare molto nell’ultimo anno, tra restrizioni, chiusure e stop forzato ai tour. Ne è risultato che le canzoni di questo album sono state scritte e assemblate a distanza, tranne un paio di episodi che risalgono a prima del disco di debutto e che venivano dunque già suonati abitualmente dal vivo.

Il feeling spontaneo, da Jam Session in sala prove e la ritrovata sintonia che ne è sottesa, sono stati dunque recuperati in sede di registrazione, nel contesto suggestivo e isolato dell’Isola di Wight, dove hanno convissuto per diverse settimane, lavoro e vacanza fusi insieme in un binomio inscindibile.

Lo si poteva intuire dai primi singoli, adesso è divenuta una certezza: Ants Up Here è profondamente diverso da For the First Time. Non si può dire che sembrino due band diverse perché l’impronta identitaria è sempre lì, dal modo di costruire i brani accumulando strato su strato, al ruolo fondamentale ricoperto dal sassofono di Lewis Evans e del violino di Georgia Ellery nell’economia melodica delle canzoni.

La declinazione, tuttavia, è differente: gli Slints non ci sono praticamente più e con essi scompare quell’impronta Post Rock che, mescolata con le influenze Klezmer, aveva caratterizzato gran parte delle composizioni del debutto.

A questo giro i punti di riferimento sono altri: le sperimentazioni minimali di Steve Reich (difficile non scorgere in “Bread Song” il richiamo della sua “Music for 18 Musicians”) e Philip Glass sono state studiate con più attenzione rispetto al passato; al contempo, questo sì un dato sorprendente, sono comparsi tutta una serie di richiami all’Indie Rock dei primi Duemila, dagli Arcade Fire ai Neutral Milk Hotel: non c’è solo l’arrembante ritornello di “Chaos Space Marine”, tanto meraviglioso quanto spiazzante, ma anche una massiccia impronta orchestrale, maggiormente razionalizzata rispetto agli esordi ma che fluisce con un certo grado di spontaneità ed entusiasmo, come se fossimo di fronte ad una declinazione British dei Broken Social Scene.

I brani sono sempre mediamente lunghi (in particolare, gli ultimi tre episodi in scaletta fanno da soli mezz’ora, cioè la metà del disco) ma rumore e distorsione sono pressoché scomparsi, lasciando il posto alle chitarre acustiche e al pianoforte (si veda in particolare l’inizio di “Haldern”) spesso doppiati sapientemente da sax e violino, in un’atmosfera ora da Indie Folk da camera, ora da Jazz sperimentale (“Bread Song”, nella sua cupezza esistenziale di fondo, oppure “Snow Globes”, lunga e struggente, vagamente Post Rock nel suo modo di utilizzare crescendo e ripetizioni).  

C’è pure una buona quota di songwriting tradizionale, come una “The Place Where He Inserted the Blade” che inizia piano e voce e, secondo quel che ha dichiarato il cantante, è stata ispirata all’ultimo Bob Dylan, quello più scarno, cupo e bluesy. C’è un inizio soffuso e un ritornello dall’impronta cameristica dove ancora una volta fanno capolino gli Arcade Fire, ben evidenti nel liberatorio singalong finale. Anche “Good Will Hunting” rientra nel filone “Roots”, una ballata non molto appariscente ma comunque sapientemente costruita; stessa cosa per la già citata “Haldern”, che contiene però anche una certa quota di improvvisazione, ben evidente nella seconda parte, col sax e il violino che entrano insieme e che nel finale sono in scena da soli.

Di questa svolta Isaac Woods è senza dubbio uno dei maggiori responsabili: il cantante ha del tutto eliminato lo spoken word in favore di un crooning profondo ed espressivo, al servizio di testi che denotano un talento letterario purissimo, disseminati di citazioni (dai Killers a Father John Misty, passando per il solito “England is Mine” di smithsiana memoria), di riferimenti più o meno iconici (Billie Eilish, il Concorde, con l’aereo supersonico che diviene metafora dei sacrifici emotivi che una relazione per forza di cose domanda, o addirittura l’universo di Warhammer 40.000) e che risultano nel complesso più criptici ed intimisti rispetto al passato; una possibile profezia, ma forse non bisognerebbe troppo fidarsi del senno di poi, del cammino che avrebbero preso gli eventi di lì a poco.

La conclusiva “Basketball Shoes”, nonostante sia stata una delle prime ad essere composta, funge un po’ da summa dell’intero discorso, sia per la lunghezza (dodici minuti), sia perché contiene un po’ tutti gli elementi di novità che abbiamo citato. E in questo è anche esemplificativa di un certo residuo problematico che questo lavoro si porta dietro: a tratti sprazzi di bellezza assoluta ma anche momenti in cui è impossibile non notare una certa stanchezza e dispersione. Il livello generale è alto ma non tutto funziona e questo è ciò che rende questo sophomore inferiore al predecessore.

Non li vedremo in tour con queste canzoni e quando finalmente torneranno a calcare un palco saranno presumibilmente una band molto diversa. Non stiamo recensendo un disco postumo ma la sensazione è quella, scusate se non riesco a fingere. Sarà difficile ascoltarlo nello stesso modo in cui lo ascoltavo solo pochi giorni fa ma direi che questo non cambia la sostanza: i Black Country, New Road sono tornati e sono tornati alla grande, qualunque cosa succeda in futuro.