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REVIEWSLE RECENSIONI
As The Love Continues
Mogwai
2021  (Rock Action Records)
IL DISCO DELLA SETTIMANA INDIE ROCK ALTERNATIVE
8/10
all REVIEWS
01/03/2021
Mogwai
As The Love Continues
“As The Love Continues” parrebbe infatti il perfetto esempio di come preservare intatto il proprio marchio di fabbrica, continuando a fare le solite cose ma allo stesso tempo scombinando le carte in tavola e introducendo una gran quantità di elementi differenti, col risultato di realizzare forse uno dei lavori migliori della loro carriera, sicuramente uno dei più vari.

Raccontano che durante il breve periodo in cui gli fece da manager, il leggendario Alan McGee  disse loro una cosa più o meno così: “Siete fortunati perché avete un aspetto anonimo, difficilmente vi riconoscerebbero per strada, di conseguenza al pubblico fregherà poco di trovarvi invecchiati, tra un po’ di anni”. Non sono mai stati tanto appariscenti, in effetti. Individui comuni dall’aspetto comune, difficile inquadrarli come musicisti solamente osservando una fotografia. Figli, da questo punto di vista, di un periodo storico in cui, implosa senza troppo clamore la rivoluzione Grunge ed esauritasi la spinta deflagrante del Brit Pop, il look esteriore degli artisti, certi cliché su aftershow selvaggi e stanze d’albergo devastate, fino ad arrivare allo stesso concetto di “Rockstar”, venivano ormai fortemente smitizzati.

Barry Burns, polistrumentista, tra gli elementi fondamentali dell’alchimia sonora della band scozzese, lo aveva già sintetizzato qualche anno fa parlando di “medium fame”, quel concetto di popolarità per cui “non siamo dei perfetti sconosciuti ma nemmeno si può dire che siamo famosi”, definendola poi una condizione ideale per le loro abitudini di vita.

Oggi che le cose non stanno più così, essendo che i loro ultimi due dischi sono entrati nella Top Ten del Regno Unito (e quest’ultimo ha raggiunto addirittura il primo posto ad appena una manciata di giorni dall’uscita), sembra che si debba dare ancora ragione a Stuart Braithwaite, quando dichiarava che per loro, suonare davanti a 50 persone o a 2000 non faceva differenza: “Semplicemente – scherzava – nel secondo caso ci danno un camerino decente!”.

“As The Love Continues” è il decimo disco in studio per il quartetto di Glasgow e, quasi a marcare fisicamente un collegamento col passato, esce 25 anni dopo il 45 giri d’esordio, quel “Tuner/Lower” che costituì la prima uscita della Rock Action, ancora oggi l’etichetta con la quale pubblicano i loro lavori.

E dietro la consolle c’è sempre David Fridmann, il produttore di alcuni dei loro lavori più importanti, anche se in questo caso le cose hanno preso una piega imprevista: la band si sarebbe dovuta recare da lui in America ma poi la pandemia ha fatto quello che sappiamo e hanno dovuto accettare di lavorare con un oceano nel mezzo: Stu e compagni in uno studio del Worcestershire, l’ex Mercury Rev a casa sua, dove li ha diretti comunque in modo impeccabile, a giudicare da quel che è venuto fuori.

“As The Love Continues” parrebbe infatti il perfetto esempio di come preservare intatto il proprio marchio di fabbrica, continuando a fare le solite cose ma allo stesso tempo scombinando le carte in tavola e introducendo una gran quantità di elementi differenti, col risultato di realizzare forse uno dei lavori migliori della loro carriera, sicuramente uno dei più vari.

Ha senza dubbio aiutato l’esperienza delle colonne sonore, mezzo espressivo che è sempre stato nelle corde dei Mogwai ma che negli ultimi tempi li ha tenuti impegnati molto di più: quasi quattro anni separano questo disco dal precedente “Every Country’s Sun” ma in mezzo ci sono state le musiche per “KIN” e “ZEROZEROZERO”; prima ancora, nel 2016, quelle per il documentario “Atomic”.

Queste esperienze sono state messe brillantemente a frutto in “As The Love Continues”, molto più variegato nella costruzione dei brani, incentrati molto più che in passato sulla suggestione delle atmosfere e molto più attenti nella gestione dei crescendo.

Ascoltare come prova l’iniziale “To the Bin My Friend, Tonight We Vacate the Earth” (il titolo eccentrico pare sia una frase rubata da Stuart a Benjamin John Powers dei Blanck Mass mentre parlava nel sonno), con Synth e pianoforte ad introdurre un tema portante minimale, attorno al quale viene costruita una struttura sonora sempre più stratificata, fino ad arrivare alle chitarre elettriche che fanno esplodere seriamente il brano.

Nella maggior parte dei casi si predilige un andamento contemplativo e sonorità più aperte e d’atmosfera, a discapito delle autentiche deflagrazioni sonore degli esordi: sentire a titolo di esempio “Here We, Here We, Here We Go Forever”, una tessitura elettronica che richiama il mood di un disco come “Rave Tapes”, le linee vocali di Stu completamente trasformate dal vocoder, gli sfoghi chitarristici intervallati da un break di pianoforte. Oppure il primo singolo “Dry Fantasy”, con l’impronta tipica della band che attraversa fredde desolazioni che parlano di solitudine e abbandono. O ancora, “Fuck Off Money”, sempre con un ruolo importante del vocoder, tutta costruita sulle tastiere, con i Synth che nel finale fanno salire la tensione fino ad ergersi protagonisti.

Ma è anche un disco dove i nostri dimostrano che, nel caso volessero scrivere canzoni dalla struttura convenzionale, non ce ne sarebbe ugualmente per nessuno: lo avevano già dimostrato nel disco precedente con “Party in the Dark”, lo mettono in chiaro anche stavolta con “Ritchie Sacramento”, perfetta dal punto di vista melodico e intrisa di struggente nostalgia.

A ben guardare, forse i momenti migliori arrivano dove la scrittura della band si sposa col prezioso contributo di due ospiti di eccezione: Atticus Ross che arricchisce le pulsazioni notturne di “Midnight Flit”, incentrata sull’elemento percussivo e con una tastiera che man mano sale d’intensità e diviene protagonista di bellissime evoluzioni. E poi Colin Stetson in “Pat Stains”, col sax fuso alla perfezione nel mix ma indispensabile nel dare un tocco unico a quella che è probabilmente la traccia costruita meglio dell’intero lavoro.

Chi amasse la vecchia versione dei Mogwai, quella più chitarristica, giocata sulla continua alternanza tra pieni e vuoti, potrà concentrarsi su episodi come “Drive the Nail”, “Ceiling Granny” e “Supposedly We Were Nightmares”, mentre la conclusiva “It’s What I Want To Do, Mum” ha il sapore del commiato, un altro crescendo da manuale sullo sfondo di una desolazione esistenziale.

L’etichetta “Post Rock” sta loro stretta, lo hanno ribadito più volte. In effetti potremmo dire, come è già stato puntualizzato da critici autorevoli, che si tratta di quattro individui chiusi in una stanza che ricamano visioni di bellezza, senza troppo preoccuparsi di definire e incasellare quello che fanno. Quella dei Mogwai è musica, nel senso più autentico del termine; che siano ancora qui, a 25 anni di distanza, a fare quello che fanno con passione e ispirazione immutate, è un dono che dovremmo tutti cercare di tenerci stretti.


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