Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
26/07/2021
Albert King
Born Under a Bad Sign
Uno dei dischi che hanno dato una nuova direzione al blues. Un artista incredibile che riesce a esprimere il meglio attorniato da veri fuoriclasse. La storia e le canzoni di questo lavoro sarebbero da studiare a scuola nelle ore di musica, nella sezione a titolo: “Album Epici”.

    “Tutte le volte che ascoltate un chitarrista rock ‘n roll, sta suonando i fraseggi di Albert King.”        

Wayne Jackson, Memphis Horns.

 

Quando nel 1966 Albert King firma per la storica casa discografica Stax non immagina assolutamente che l’anno successivo si sarebbe materializzato un album capace di dare una sferzata al blues, modernizzandolo e salvandolo da una decadenza che lo stava facendo indietreggiare a uno stato solo conservativo, o tuttalpiù virandolo verso una direzione derivativa. In effetti questo genere musicale rischiava di incunearsi in un tunnel senza uscita, con il rischio di perdere presto pure credibilità.

Albert Nelson, questo il suo vero nome, all’epoca ha già più di quarant’anni e un“curriculum” un poco misterioso. Sostiene di essere nato a Indianola, ma altre fonti dicono sia di Aberdeen, comunque sempre nel Mississippi. Sembra che la madre poi abbia trasferito la famiglia a Forrest City, in Arkansas. Lì avrebbe imparato i trucchi del mestiere frequentando piccoli club, godendo l’influenza della vicina Memphis, e successivamente lavorato anche come muratore e formato una band, i Groove Boys. Il contatto con Elmore James e soprattutto Jimmy Reed sono importanti per la sua formazione musicale, e, dopo essersi spostato a Brooklyn, nell’Illinois, riesce a pubblicare un singolo che rimarrà nella storia, Don’t Throw Your Love on Me So Strong, di cui si ricorda la magnifica versione di Kooper/Bloomfield nelle loro mitiche Live Adventure, prima di realizzare finalmente il disco di debutto The Big Blues (1962) e, tristemente, finire nel dimenticatoio fino al momento sopra citato, che porta all’uscita di Born Under a Bad Sign.

Bisogna aggiungere che, inizialmente, l’influenza di tal disco si sente principalmente sulle “nuove leve”. Infatti Hendrix, il già menzionato Bloomfield e soprattutto Clapton nei Cream, fagocitano entusiasti la lezione di stile del gigantesco (circa 2 metri per 110 chilogrammi!!) artista portando freschezza e idee nuove alle loro opere, innalzando l’electric blues a un livello più elevato. Il tempo ha poi dato ragione, anche considerando le copie vendute, a questa raccolta di undici tracce, tutte invero potenziali hits, che sono diventate repertorio, sia live sia in studio, di svariati musicisti e band, spesso seguendo pedissequamente l’arrangiamento qui utilizzato. Stevie Ray Vaughan e Gary Moore sono l’esempio lampante dell’insegnamento ricevuto dal maestro Albert, e arrivano a condividere il palco insieme a lui pure per preziose pubblicazioni che rimarranno nella storia. Memorabili in questo senso permangono rispettivamente In Session – registrato nel 1983, con prima release nel ’99- e An Evening of the Blues del ‘90, vere perle, con la seconda che meriterebbe un’adeguata ristampa in CD/DVD.

Un prezioso incontro di menti geniali consente lo sviluppo del progetto Born Under a Sign, che diventa realtà in cinque sessioni tra Marzo ’66 e Giugno ’67 e prevede, sotto la supervisione di Jim Stewart, i mitici membri di Booker T. & the M.G.’s dirigere le operazioni, oltre a portar in dote The Hunter, una composizione dal groove pazzesco. La chitarra pungente del “Colonnello” Steve Cropper, il basso puntuale e onnipresente di Donald “Duck” Dunn, la batteria del “Cronometrista Umano” Al Jackson Jr., ma soprattutto il piano, l’organo e le intuizioni musicali di Booker Taliaferro Jones caratterizzano e pilotano un’opera eccezionale, screziata da funk e soul che emergono sia in composizioni scritte da King come Personal Manager (ideata insieme a David Porter) e Down Don’t Bother Me, che in rivisitazioni di classici come Kansas City a marchio Leiber e Stoller. I fiati dei Memphis Horns e le tastiere dell’istrionico Isaac Hayes fanno da collante e colorano di tonalità rhythm and blues le tracce che difficilmente vanno oltre i tre minuti. E questo è un altro punto di forza dell’artista, che riesce a fare la differenza e a rendersi unico sfoderando una caratteristica spesso ritenuta banale: la semplicità.

Non sono necessari per il buon Albert assoli chilometrici, ma ogni canzone è pervasa dai suoi “licks”, dal sofferto feeling dei suoi fraseggi che vengono fuori naturali dalla mitica Gibson Flying V. Riuscire a ottenere il massimo da qualsiasi situazione è il suo motto ed è incredibile come riesca a ricavarlo lui, mancino, suonando la chitarra da “destri” ribaltata, senza neanche cambiare l’ordine delle corde. Il suo stile di esecuzione è dominato dal “bending”, ma ovviamente confezionato con una tecnica tutta sua, originale, che dà ancora maggior enfasi alle note alte.

Un esempio eclatante di quanto sopra scritto è presente nella rivoluzionaria rilettura di Crosscut Saw, pubblicata per la prima volta nel 1941 da Tommy McClennan in classico Delta-style acustico. Ebbene “Il Re” la trasforma in un blues moderno facendo ululare la chitarra, magistralmente accompagnato dalla band.

“Quando Albert suona una nota, tu non la ascolti solamente, la senti proprio dentro.”                 Stevie Ray Vaughan

Inoltre Il tocco di Al Jackson Jr è un saliscendi emotivo, il suo “tamburellare” si adegua perfettamente al contesto sonoro e alla voce soul di King, che nel background vanta anche la partecipazione in un gruppo gospel. A tratti le sue doti vocali ricordano la sensibilità di Bobby “Blue” Bland, specialmente nella ballata I Almost Lost My Mind, un gioiellino nascosto di Ivory Joe Hunter dove fa capolino pure un flauto, addobbato di richiami gershwiniani per merito di Joe Arnold, o nella triste As the Years Go Passing By. Quest’ultima, accreditata a Deadric Malone, pseudonimo del produttore discografico Don Robey, fu scritta da Peppermint Harris e vide la luce per la prima volta nel 1959, nell’interpretazione di Fenton Robinson. Avrà nuova vita grazie a questa malinconica riproposizione, che nell’arrangiamento accentua il dramma del testo, in cui un uomo chiede alla compagna di non lasciarlo perché il suo amore per lei continuerà per sempre al passare degli anni. Questa versione sarà inoltre fonte di ispirazione al fine di creare parte del magico riff di Layla, pietra miliare dei Derek and the Dominos.

La versatilità, altra virtù di Albert King, si denota nel confronto tra l’esecuzione altolocata di The Very Thought of You e la ruspante resa di Oh, Pretty Woman, ma niente sarà più come prima dopo l’ascolto della title track.

Hard luck and trouble is my only friend
I've been on my own ever since I was ten
Born under a bad sign
Been down since I begin to crawl
If it wasn't for bad luck
You know I wouldn't have no luck at all.”

“La sfortuna e i problemi sono i miei unici amici

Sono da solo fin da quando avevo dieci anni

Nato sotto una cattiva stella

Così in basso fino al punto di strisciare

Se non fosse stato per la sfortuna

Non avrei fortuna alcuna”.

 

Scritto appositamente da William Bell con il contributo  di Booker T. Jones, Born Under a Bad Sign è un brano spregiudicato che strizza l’occhio all’astrologia per definire la pessima situazione del protagonista e si discosta dalla classica struttura a dodici misure per immergersi, grazie alle linee di basso e chitarra ritmica dell’accoppiata infallibile Dunn-Cropper, nell’R&B style, fino a fare solletico al rock.

La performance di King è sensazionale, la sua Gibson non dà tregua per tutto il pezzo, fluida e limpida come mai.

Rimane una registrazione storica, perfetto esempio di crossover, e sarà inclusa dalla Rock and Roll of Fame nella lista delle “500 canzoni che hanno dato forma al Rock and Roll”.

Parafrasando il titolo si può dire che il blues abbia avuto la miglior fortuna durante il suo periodo più nero proprio per opera di questo disco in cui si è puntato più alla finezza che alla potenza, dove una prima nota esplosiva prodotta dal Maestro viene immediatamente strangolata dal silenzio, prima di permettere a una seconda di acquisire forza e diventare formidabile sostegno per l’architettura sonora di tutto l’assolo.

Pure la carriera di questo straordinario personaggio è destinata a prendere vigore a partire da Born Under a Bad Sign e sarà ricca di spunti, costellata da leggendarie esibizioni live, toccando forse l’apice nello show a Montreux del ’73, e album travolgenti, ricchi di contaminazioni come I Wanna Get Funky, di un anno dopo, e  più tradizionali come invece I’m in a Phone Booth, Baby, datato 1984.

Numerose saranno anche le uscite postume per un chitarrista storico e davvero sui generis che, proprio in un’intervista su Guitar World tenuta poco prima della morte per un attacco di cuore, avvenuta nel 1992, ammetterà con sincerità il vero motivo per cui non abbia mai usato un plettro…

“In realtà non riesco a tenerne in mano uno, le mie dita sono troppo grosse. Continuavo a provare, ma il plettro non faceva che volare dappertutto in casa. Ho sempre fatto fatica a utilizzarlo, così ho imparato a suonare senza.”

Incredibile e imprevedibile come sempre, questo era “Blues Boy” Albert King, tanto particolare da essersi affibbiato lo stesso soprannome di un altro eroe della sei corde, Mr. B.B. King.


TAGS: AlbertKing | alessandrovailati | BornUnderABadSign | loudd | reloudd