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REVIEWSLE RECENSIONI
Broken Politics
Neneh Cherry
2018  (Smalltown Supersound)
ELETTRONICA BLACK/SOUL/R'N'B/FUNK
8/10
all REVIEWS
05/11/2018
Neneh Cherry
Broken Politics
A 54 anni la cantante di origini svedesi trova finalmente la dimensione più consona alle sue attitudini e, confermando l'efficace produzione di Four Tet, riesce a rendere al meglio la sua natura stilistica.

Neneh Cherry è una cantante che non si è mai sottratta alla sperimentazione nell’ambito del pop intelligente, almeno tanto quanto è stata lontana dalla sovraesposizione mediatica. Ce la ricordiamo con piacere sin dai tempi delle Slits e, soprattutto, dei Rip Rig + Panic.

A suo favore inoltre depone il fatto che, sulla scena sin dalla fine degli anni settanta nella Londra delle avanguardie post-punk, la produzione della figlia adottiva di Don Cherry non è mai stata eccessiva. A costo di subire immeritati oblii temporanei, Neneh Cherry è riuscita a rientrare ogni volta con qualcosa di sempre più nuovo e più convincente di prima. Un approccio anticonformista che da un lato ne ha penalizzato il successo, il suo estro meritava decisamente molto di più, ma che in cambio ha restituito ogni volta lavori di una qualità superiore alla media e disinvolte (e riuscite) incursioni in più generi, nel corso della sua lunga carriera: new wave, hip hop, world music, jazz, r&b, nu soul.

Fino al 2014, anno di uscita dell’ottimo album “Blank Project” e in cui prende il via la collaborazione con Kieran Hebden, più noto come Four Tet. La vagabonda (da un punto di vista stilistico) Neneh Cherry, forse per la prima volta nella sua vita, trova una stabilità, una casa dotata di tutti i confort in cui far rendere al meglio le sue canzoni. Prova ne è che, quattro anni dopo, la formula si conferma con “Broken Politics”, il disco che, del precedente, costituisce il fortunato prosieguo.

“Broken Politics” è una raffinata collezione di brani contraddistinti dalla stessa matrice di elettronica moderna e ambiziosa che ha reso Four Tet uno dei più richiesti produttori musicali. Il disco vede un susseguirsi canzoni rese con una rara varietà di espedienti compositivi e arrangiamenti di classe, a partire dal mondo incantato (non nelle parole) di “Fallen Leaves” e dal suo loop ritmico irrisolto. Qui, come in tutte le tracce, la voce di Neneh Cherry, uno di quei timbri che si riconoscono tra milioni, si erge sulle basi piene e suggestive ricamando le parole delle liriche sulla trama di melodie efficaci.

Un genere, che per semplificare, potremmo avvicinare al trip-hop, uno stile che senza soluzione di continuità si dimostra oggi tutt’altro che superato. Prova ne è il primo riuscitissimo singolo, traccia due dell’album, dal titolo “Kong”, canzone che vede la presenza di Robert Del Naja dei Massive Attack e che, con un loop essenziale di cassa e un giro di basso ipnotico, ci porta in quota “Mezzanine” proprio nell’anno del ventennale del capolavoro della combo di Bristol.

La tensione si stempera grazie al trionfo di essenzialità della successiva “Synchronised Devotion” in cui sono solo il piano, il vibrafono e poco altro a rincorrere la voce, e a “Deep Vein Thrombosis”, un brano monocorde di natura folktronica.

Ma i campionamenti non sono finiti. “Faster Then The Truth” si apre infatti con il sample di batteria di “Fifty Ways To Leave Your Lover” di Paul Simon e l’inconfondibile tecnica di Steve Gadd. Neneh Cherry qui torna a cimentarsi in parte con il rap, il cui alternarsi con la melodia del ritornello fa di questo brano uno dei migliori del disco. E “Natural Skin Deep”, la traccia seguente, non è da meno. Il ritmo incalza e l’elettronica si adatta. Il suono si arricchisce di effetti e la formula dei pattern ricorsivi torna a essere protagonista almeno fino a metà, quando piano elettrico e il sax rubato a Ornette Coleman ci fanno ripiombare nel jazz più estremo per poi riprendere tutto da capo e riportarci con i piedi nel groove.

Dopo il downbeat soul di “Shot Gun Shack”, non privo delle consuete originalità alla Four Tet, il disco tornare a crescere con “Black Monday”. La gamma dei timbri e dei suoni si arricchisce sempre di nuovi espedienti volti a non appesantire il massiccio supporto della ritmica artificiale, fino alle trame di flauto e percussioni di “Slow Release”, in cui suoni acustici e trattamenti sintetici finiscono con il confondersi e limitarsi alle retrovie, il tutto a vantaggio della suggestiva cantilena di Neneh Cherry e finalizzato alla sua massima espressione, come è giusto che meriti. Fino a “Soldier”, il brano di chiusura, perfettamente minimale nell’ossessività del pianoforte che, insieme alla voce, riesce a dire tutto ripetendo all’infinito un’esigua linea di note.

Quello che colpisce, di Neneh Cherry, è il modo in cui riesce a risultare sempre a proprio agio con qualsiasi materiale sonoro a disposizione. “Broken Politics” risulta un album di urgente contemporaneità nei suoni e nei contenuti e porta a compimento il percorso iniziato con il lavoro precedente. A 54 anni la cantante di origini svedesi trova finalmente la dimensione più consona alle sue attitudini e, grazie alla componente elettronica di una produzione originalissima, riesce a far rendere al meglio la sua natura stilistica.