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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
12/09/2022
Men at Work
Business as Usual
“A dire il vero, non ricordo molto degli anni '80. Vorrei che non fosse così, ma lo è.”, afferma Colin Hay, leader degli australiani Men at Work. Sicuramente tanti lo rimembrano come un decennio diverso: dalla moda alla musica, allo stile di vita, financo alla politica; quanto abbiamo criticato quel periodo? In realtà, solo il tempo è galantuomo e permette di vedere le cose con maggiore oggettività. Non tutto era da buttare, e certamente non lo era - e non lo è - Business as Usual.

Partire con la famiglia dalla Scozia per trasferirsi in Australia a quattordici anni e perdere tutto quanto si era acquisito sinora, amicizie, passioni e cultura, non è così semplice. Non si tratta solo di cambiare città - da Saltcoats a Melbourne -, è proprio cambiare vita. Niente è più come prima: il cielo, le case, i visi che si incontrano per la strada. Una cosa è rimasta tale e quale, la musica. I genitori di Colin Hay gestivano un piccolo negozio di dischi e papà era stato accordatore di pianoforti, cantante e ballerino di scena a Glasgow.

Con questi stimoli il giovane Hay prosegue negli anni il contatto con il mondo delle sette note e ormai venticinquenne, nel 1978, forma un duo acustico con l’amico Ron Strykert, prodromo di quanto avviene alcuni mesi dopo. L’aggiunta del batterista Jerry Speiser costituisce il nucleo della band che, con l’inserimento dell’inizialmente esitante Greg Ham, brillante polistrumentista, comincia a comporre canzoni sotto il nome di Men at Work. L’ultimo ad aggregarsi è il bassista John Rees, mentre il gruppo si evolve, continuando a inglobare le esperienze e influenze musicali dei propri membri per creare un ibrido che aggiunge alle fondamenta rock un pizzico di reggae, ma soprattutto aspira a coniugare l’ondata new wave con il pop. Così, dopo l’uscita di un singolo intitolato "Keypunch Operator" nel 1980, tutto muta l’anno seguente con la firma per la branca australiana della Columbia Records e soprattutto grazie alla pubblicazione di "Who Can It Be Now?", pezzo che diviene un successone in Australia e traino - nell 1982 inoltrato - per il disco di debutto e per la fama negli Stati Uniti e in Europa.

Colin Hay concepisce separatamente musica e testi: la prima viene composta tempo prima a Bermagui, nel New South Wales. L’ispirazione per le parole giunge successivamente, molto vicino al periodo di incisione finale del brano, quando invece il frontman vive a St Kilda, a una manciata di chilometri da Melbourne.

 

«Who can it be knocking at my door?
  Go away, don't come 'round here no more
  Can't you see that it's late at night?
  I'm very tired and I'm not feeling right
  All I wish is to be alone
  Stay away, don't you invade my home…».

 

“Vivevo accanto a spacciatori di droga e la gente spesso confondeva il mio appartamento con il loro. Il numero di persone che bussavano alla porta mi innervosì al punto che avevo paura di aprire indipendentemente da chi ci fosse.  In più stavo cercando di uscire da un momento difficile della carriera musicale, che non era ancora decollata. Per farla breve: non avevo soldi. E sembrava che in quel particolare frangente tutti coloro i quali si appropinquavano al mio uscio volessero da me qualcosa che io non avevo o non volevo dare loro. Poteva trattarsi di denaro, o semplicemente di tempo che non intendevo perdere”.

 

La canzone si apre con un giro di sassofono di Greg Ham; Hay aveva originariamente ideato quel fraseggio più avanti nel pezzo, ma il produttore americano Peter McIan, con un colpo di genio, suggerisce di spostarlo nell’introduzione. Il risultato rimane un classico degli eighties e la più grande hit per la formazione insieme a "Down Under". Un’altra mossa vincente si rivela la scelta di fare un tour in Canada e USA, facendo da spalla ai Fleetwood Mac per promuovere i 45 giri e l’album. Le vendite di Business as Usual si impennano e giustappunto "Down Under", scritta dall’accoppiata Strykert/Hay e riarrangiata e reincisa in chiave reggae pop rispetto alla versione originale di alcuni anni prima - ancora pallida e senza una precisa direzione, nata da un giocoso riff di basso di Strykert - , fa volare le quotazioni dei ragazzi australiani.

“Giù sotto”, “Agli antipodi”, ma anche proprio “In Australia” rappresentano la traduzione del titolo. Si tratta di una composizione alquanto bizzarra che, cavalcando comicamente alcuni stereotipi, narra le avventure di un australiano che viaggia all’estero. Scavando a fondo nel significato si può scorgere un tentativo di critica nei confronti del Paese, come un avvertimento: secondo Colin Hay l’eccessivo sviluppo e la conseguente esagerata americanizzazione avrebbero potuto svilire l’anima, lo spirito della nazione, in realtà già deturpata dall’arrivo dell’uomo bianco. “Non senti la tempesta? Meglio che tu corra, è meglio che ti metta al riparo” è forse la frase più forte, ove il temporale è metafora dei brutti avvenimenti che stanno accadendo, della sproporzionata mercificazione che sfocia in una perdita di valori.

 

"Born in the U.S.A. per certi versi è una canzone simile, in cui sfuggono molte sfumature se non la si ascolta approfonditamente. In definitiva Down Under parla di celebrazioni, ma è una questione di cosa si sceglie di celebrare di un paese o di un luogo. I bianchi non sono in Australia da molto tempo, ed è davvero un posto fantastico, ma una delle cose più interessanti ed emozionanti è ciò che c'era prima. Il vero patrimonio di un Paese spesso si smarrisce in nome del progresso e dello sviluppo".

 

Dal punto di vista musicale "Down Under" è ineccepibile. Allegrezza e voglia di ballare sopraggiungono subito per merito di un groove afoso e il ritornello si appiccica in mente al primo ascolto: l’atmosfera estiva è ben celebrata dalla melodia costruita da un flute intrigante - suonato vorticosamente e con trasporto da Greg Ham -, che domina il motivo e creerà in futuro pure un problema di copyright per una vaga somiglianza con Kookaburra, una filastrocca per bambini cara alla Terra dei canguri.

Business as Usual, come accennato, è pilotato da questi singoli, che rimarranno nel tempo a raffigurare quell’epoca. Anche "Be Good Johnny", settima traccia dell’album, ottiene un discreto riscontro, mentre "I Can See It in Your Eyes", "Underground", "Helpless Automaton" e "People Just Love to Play with Words", che la precedono in scaletta, filano via innocue senza particolari scossoni, orecchiabili, peraltro vicine ad un easy-listening piuttosto insipido. Le liriche paiono sempre indovinate, invece, sia che si tratti con intimità la fine di una relazione, si parli d’amore tramite allegorie, o si prevedano scenari distopici causati da politica e potenti.

 

L’ironia e la scelta di utilizzare immagini criptiche o fantasiose compaiono spesso nel repertorio dei Men at Work. "Be Good Johnny", un rockettone tutto chitarre, batteria e tastiere il cui titolo è un chiaro riferimento alla storica hit di Chuck Berry, è scritta dal punto di vista di un bambino di 9 anni al quale viene costantemente chiesto di essere bravo, di comportarsi bene, ma che preferisce sognare a occhi aperti anziché concentrarsi in classe o fare sport. Johnny capisce che c’è del buono nell’istruzione, tuttavia per il resto si sente completamente incompreso dal mondo degli adulti. Con eloquente humour, Hay usa la sua voce in modi diversi nel corso della canzone per imitare Johnny, i suoi genitori e l’insegnante. Il brano presenta anche un dialogo parlato del polistrumentista Greg Ham che cerca di comprendere come sia in realtà il ragazzino, ma la sua risposta è inequivocabile: “Mi piace solo sognare, per tutto il giorno, senza che nessuno gridi.” Il cercare di rimanere al di fuori di una società che, persa l’innocenza, si fa funesta e solo piena di imposizioni e regole senza sentimento, senza cuore, è una chiave di lettura di un brano che, ancora una volta, denota profondità se si gratta via la patina di semplicità volutamente lasciata galleggiare e ci si dirige alla ricerca del significato intrinseco.

L’idea di una comunità da migliorare, che dia opportunità e non lasci indietro chi non è omologato ricompare nella sarcastica "Touching the Untouchables", dove il mondo viene analizzato dalla prospettiva di un clochard, mentre "Catch a Star" riprende ritmiche reggae e sembra evidenziare i saliscendi della vita e dell’amore. Si tratta di due canzoni minori, che comunque ben rappresentano il sound del gruppo, orientato a spaziare fra i generi tenendo ben saldo il timone sul pop.

La decisione di inserire "Down By the Sea", unico motivo composto da tutti membri della formazione, come chiusura si rivela azzeccata; ballata d’atmosfera che sfiora i sette minuti, è contraddistinta da basso, chitarre e batteria con fluttuanti incursioni di sassofono. Questo brano inaugura un altro stile musicale, più rilassato, compassato e meno sincopato, che appare persino più evidente nel lavoro successivo, Cargo (1983). La bellissima e claustrofobica "Overkill" ne è splendido esempio, come pure l’amara "No Sign of Yesterday", peccato che la storia di questa band sia agli sgoccioli. Arriva l’insipido Two Hearts (1985), già con la dipartita di Speiser e Rees e l’abbandono di Strykert durante le sessioni, poi più nulla di rilevante fino al primo scioglimento (1986). Tra il 1996 e il 2002, oltre a successive “reunion” occasionali, Hay e Ham rimettono in funzione il pregiato marchio, pur con vari tira e molla, proseguendo l’attività live. Il decesso di Greg Ham nel 2012 sembra porre una fine definitiva al progetto, ma dal 2019 Colin Hay inizia a fare tournée utilizzando il nome Men at Work, senza includere nessun altro membro originale. Troppo forte la potenza e l’impatto di quelle canzoni che, per un “attimo” hanno reso celebre uno scatenato e ben assortito gruppo australiano, divenendo adorate evergreen.

 

“Sono diventato molto famoso per un minuto e poi tutto è svanito, capisci? E in tutti questi anni devi rialzarti, spolverarti e poi andare per la tua strada e ricominciare, in un certo senso, ed è quello che ho fatto”. (Colin Hay)