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REVIEWSLE RECENSIONI
Charcoal Grace
Caligula's Horse
2024  (Sony Music/InsideOut)
PROGRESSIVE METAL / HARD ROCK
7/10
all REVIEWS
14/03/2024
Caligula's Horse
Charcoal Grace
Il sesto album in studio degli australiani Caligola's Horse sprigiona un indubbio fascino progressive, attraverso composizioni che alternano luci e ombre, melodie struggenti e sferzanti riff di chitarra.

Australiani, nati a Brisbane nel 2011, i Caligula’s Horse (nome bellissimo, ispirato a Incitatus, il cavallo che Caligola voleva nominare console) si sono ritagliati, disco dopo disco, una piccola nicchia di consensi nel mondo prog metal.

Pubblicato a maggio 2020, il quinto disco della band, Rise Radiant, li vedeva in forte ascesa, grazie anche a sempre maggiori consensi della critica specializzata e a vendite che iniziavano a diventare importanti. A causa della pandemia e del successivo lockdown, però, il quartetto non ha potuto capitalizzare il duro lavoro fatto: niente tour in giro per il mondo, e una promozione passata, quindi, in secondo piano, a causa dei noti avvenimenti.

D’altra parte, il 2020 è stato un anno strano, l’esplosione del covid ha creato un vero e proprio senso di incertezza per tutti i musicisti, soprattutto quelli meno affermati, che si sono trovati a fare i conti con un totale sovvertimento di quelli che erano schemi ben collaudati. Il chitarrista della band, Adam Goleby, poi, ha lasciato il progetto nel luglio del 2021, mettendo a serio rischio l’esistenza stessa dei Caligula’s Horse.

Invece, a dispetto di tutto, i prog metaller australiani hanno usato questo momento di profonda incertezza come carburante creativo per il nuovo Charcoal Grace, un album che fa i conti, definitivamente, con le esperienze vissute in quei giorni tragici, quasi una sorta di catarsi per poter guardare al futuro con speranza e rinnovata consapevolezza.

 

In scaletta, sei canzoni, per più di un’ora di ascolto, tra chitarre ribassate e approccio sinfonico, che permettono subito un accostamento della band australiana con maestri del genere, quali Haken o Leprous. La prima, immediata impressione, poi, è che Charcoal Grace sia un disco per cui un ascolto superficiale è del tutto impossibile, anche perché, come spesso accade per gli album di prog, la vera esperienza consiste nell’ascoltare l’opera nella sua interezza. Non ci sono, infatti, hook memorabili che fanno emergere un brano sugli altri (forse, la sola "Sails" resta impressa subito, grazie alla melodia evocativa), ma se ci si abbandona, senza interruzioni, al flusso creativo della band, è possibile cogliere tutta l’emotività che attraversa la scaletta, e sperimentare l'angoscia, il vuoto, il dolore e poi la speranza e quei barlumi di gioia che i Caligula’s Horse cercano di esplorare e trasmettere.

Non è un caso che il corpus centrale dell’opera sia la title track, una suite di ventiquattro minuti, divisa in quattro parti, con cui la band affronta il tema delicato del rapporto di un bambino coi genitori separati. Un viaggio nella psiche tormentata dell’infanzia, che non può essere sezionato, ma solo assimilato nella sua complessa e complessiva durata, attraverso il fil rouge di un saliscendi emotivo, in un alternarsi di luce e oscurità, di momenti leggeri e delicati che trovano il contrappunto nelle sferzate di riff taglienti.

Un brano che è la chiave di lettura di un disco la cui anima prog, quella capacità, cioè, di cambiare registro in modo da rendere articolata la narrazione, è del tutto evidente nell’ora abbondante di ascolto, che regala altri momenti decisamente riusciti, come i due singoli, "The World Breathes With Me" e "Golem". 

 

Alla resa dei conti, tuttavia, qualche appunto occorre farlo. Di sicuro Charcoal Grace è un disco più vicino alla sensibilità di chi ama il rock progressive rispetto a chi, invece, è aduso a suoni più pesanti. Le grandi qualità tecniche del quartetto sono clamorosamente in luce, forse fin troppo, con la conseguenza che, in alcune sue parti, il disco suona come un mero sfoggio di abilità, che toglie respiro emotivo alle composizioni. Un approccio meno sofisticato e più lineare, e degli arrangiamenti più asciutti, avrebbero reso un miglior servizio a buone idee compositive e a un pathos che, solo a sprazzi, suona realmente autentico. Non una bocciatura, e ci mancherebbe, ma la sensazione che un surplus di spontaneità avrebbe fatto guadagnare punti a un album che non sempre trova il giusto slancio per toccare il cuore dell’ascoltatore.