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REVIEWSLE RECENSIONI
05/11/2019
Neil Young & Crazy Horse
Colorado
Sono ormai anni che il vecchio Neil si è ritirato tra le montagne del Colorado, a diverse miglia da Denver, in un’incantevole cittadina di duemila anime. Telluride è infatti il luogo ideale in cui trovare rifugio, meditare e ridurre al minimo i contatti col resto del mondo.

Una vita da lupo solitario quella di Neil. Uno che qualche bilancio della propria esistenza ha probabilmente cominciato a farlo. E che non può che essere in saldo positivo. Ormai ultrasettantenne e con qualche capitolo, soprattutto gli ultimi, non particolarmente significativo a livello di produzione artistica, il Loner ha ripreso in mano la propria esistenza musicale riportando nella “fattoria” quegli “animali” dei Crazy Horse di cui non si avevano notizie dal lontano 2012 (Psychedelic Pill).

Orfani del Poncho Sampedro, ora pensionato alle Hawaii, la banda di sgangherati vecchietti torna a riabbracciare quel Nils Logfren, storico chitarrista del Boss, determinante e determinato nel dare il proprio contributo alle scorribande elettriche del disco.

Ma se si pensa di essere di fronte ad un raduno di sopravvissuti che, con un pizzico di malinconia, si lasciano trasportare dalla volontà di rievocare nostalgicamente i fasti dei tempi passati, si commette un errore grossolano. 

La preoccupazione principale, oltre alla resa poco centrata delle ultime collaborazioni, era che Young avesse ceduto sul piano comunicativo, in cui il fattore “tempo” unito al timore di non averne a sufficienza condonassero il superamento del “cosa” e del “come” comunicare. La produzione smisurata degli ultimi tempi non ha fatto altro che avvalorare questa tesi.

Con questi presupposti, il rischio di cadere su una “linea morta” era davvero concreto; fortunatamente non è andata così. I Crazy Horse hanno il grande merito di rinvigorire Young e di condurlo su strade conosciute e sicure.

Si respira aria di casa sin dall’inizio, tra le caratteristiche imperfezioni della registrazione dal vivo, le punte di armonica e le spruzzate di elettricità a rendere cremoso e mantecato un disco dai riverberi seventies.

Le distorsioni delle chitarre accompagnano con rinnovata sincerità temi sempre cari al settantatreenne canadese. C’è urgenza di raccontare, di affrontare e di risolvere: dai cambiamenti climatici alle imprudenti condotte politiche, senza perdere le speranze, perché “c’è un arcobaleno di colori nei vecchi Stati Uniti”.

Con la spontaneità chiassosa ma appassionata dei Crazy Horse, Young ritrova la propria dimensione, la giusta calibratura. Non ci sono le sgroppate di Psychedelic Pill e l’irrequietezza ha solamente assunto connotati diversi, meno furenti, più maturi.

Tra soffici ballate e bagliori elettrici, si passa dalle amorose dichiarazioni di “She Showed Me Love” ed “Eternity” alle urgenze politiche e ambientali di “Think of Me”, “Milky Way” e “Rainbow of Colors”.

Colorado ci salva e si salva dal rischio di sanguinose capitolazioni. Restituisce Young e lo ripristina, nonostante alcuni prevedibili cedimenti retorici.

Non si tratta di una resurrezione, nemmeno di un’evoluzione. Solo di rimettere tutto a posto, in quello giusto. Come negli album di famiglia.


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