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REVIEWSLE RECENSIONI
03/02/2020
Keeley Forsyth
Debris
Grave errore sarebbe liquidare Keeley Forsyth alla stregua di quelle attrici che, dopo una carriera ultra ventennale fatta di numerose soddisfazioni ma di nessun vero e proprio salto di qualità, decide di cambiare ambito artistico e si dedica alla sua vecchia passione per la musica.

Questo dovrebbe lasciare intendere la sua biografia, ma basterebbe ascoltare il disco che ha appena pubblicato per venire completamente smentiti.

Varcata la soglia dei quarant’anni, dopo essere diventata moglie e madre, l'artista di Manchester si dedica alla scrittura, coinvolge negli arrangiamenti il pianista Matthew Bourne (che ha anche suonato su parte dei brani) e confeziona un disco che ha portato alcuni critici a definirla “la figlia bastarda di Peggy Lee e Nico”. È un paragone sicuramente più azzeccato rispetto a quelli con Jenny Hval e Nils Frahm che ci vengono offerti dalle note stampa. La cosa certa è che “Debris” parla un linguaggio essenziale e minimalista ma, ad entrare in profondità nelle canzoni, è più facile farsi venire in mente un incrocio tra il Folk tenebroso dell'ultima Aldous Harding con le funeree vaporizzazioni sonore ultimamente divenute il marchio di fabbrica di Nick Cave e dei suoi Bad Seeds.

C’è tanta sofferenza, in questo album d'esordio. È una sofferenza trattenuta, che quasi si vergogna di essere esibita e che chiede di rimanere sullo sfondo. Keeley ha addirittura tenuto a precisare di non avere usato la sua voce narrante, di avere messo in campo una terza persona, un meccanismo di distacco necessario per non farsi surclassare dalla drammaticità dei testi. Testi che, a detta sua, riflettono brutte esperienze personali accadute di recente. Quali, lei non ha voluto spiegarlo e, leggendo queste parole che sembrano messe in fila col contagocce, esattamente come le note degli strumenti che accompagnano la sua voce, non è possibile scoprirlo. Di sicuro c’è che “Lost”, una sorta di funerea litania per defunti con una voce quasi parlata accompagnata da un tappeto di Synth, pare essere la chiave per comprendere l'intero disco (“Is this what madness feels like? (...)/I am blind/Hurt/Beyond help/Beyond your touch my body peels off into the night/If I could touch this sadness/I would change the world tonight.”).

È come se, nell'eterna domanda se sia vero che l'arte migliore nasca sempre da una ferita, da una sofferenza, la Forsyth abbia risposto di no, perché queste canzoni, queste parole erano lì sin dall'inizio, aspettavano solo di uscire. Anche se poi, in un'intervista recente, ha dovuto riconoscere che scrivere “Debris” è stato “dare voce a quella cosa che altrimenti si sarebbe rivolta contro di me, rendendomi pazza”.

Ma qualunque sia stata la molla di tale creatività, è il risultato finale quello che conta. E quel che abbiamo davanti è un'opera prima di una bellezza sorprendente, canzoni che vivono su ciò che è indispensabile, senza mai aggiungere un elemento in più, con una voce che trascina le parole come in sogno e si eleva ad un livello espressivo che è insieme etereo e funereo, quasi a sottolineare il concetto, da lei stessa espresso, secondo cui “le tenebre e la luce sono sono solo un'altra forma di espirare e respirare e saranno sempre parte di me”.

Sono brani costruiti su pochi elementi (ora il piano, ora la chitarra, sempre pochissime le note suonate) e che fanno un largo uso del crescendo, portato avanti con Synth e orchestrazioni varie ma sempre in modo discreto, senza mai riempire eccessivamente gli spazi. Ci sono episodi che si ispirano al Folk tradizionale (“Black Bull” sembra uscita dalla penna di una Joni Mitchell spiritata, “Look To Yourself”, che ha scritto per i suoi figli, è una composizione per sole chitarra e voce e ha un feeling quasi live), altri, come “Butterfly” e “It's Raining”, sono più vicine ad un album come “Ghosteen”, col suo feeling solenne, quasi sacro.

E poi c’è la chiusa inusuale di “Start Again”, dove per la prima volta entra un Beat leggero, le tastiere sono più presenti e c’è un'atmosfera generale che richiama band come Daughter e Beach House.

Sarebbe un vero peccato snobbare questo disco solo perché non c’è un nome altisonante in copertina o, all'opposto, perché ce n'è uno già conosciuto ma non per meriti musicali. Se tutto andrà per il verso giusto Keeley Forsyth potrebbe avere anche compiuto il primo passo verso una nuova, luminosissima carriera.


TAGS: Debris | Forsyth | Keeley | loudd | lucafranceschini | recensione