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REVIEWSLE RECENSIONI
04/06/2021
The Black Keys
Delta Kream
I Black Keys si ributtano nel blues. Questa frase racchiude già pregi e difetti di Delta Kream. Se da un lato è davvero ammirevole la loro passione per il genere, dall’altro, onestamente, il vero blues è un’altra cosa.

“The blues is a feeling, you can’t get it out of no book. You can’t write the blues on a piece of paper, you just feel the blues.” John Lee Hooker

“Il blues è un sentimento, non puoi impararlo da nessun libro. Non puoi scrivere il blues su un pezzo di carta, il blues devi provarlo”.

Non ci è dato di sapere se Auerbach e Carney abbiano provato cosa significhi avere il blues, diciamo però che non sembrano in grado di trasmetterlo in questi undici brani dalla produzione eccelsa, perfetta, senza una sbavatura, ma monotoni, monocordi, proprio a causa di tale compiutezza. E il singolo Crawling Kingsnake, cavallo di battaglia a inizio carriera proprio del sopra citato John Lee Hooker, risulta paradossalmente il brano meglio riuscito, con quell’indovinato riff di chitarra ripetuto all’infinito. La versione dei Black Keys riprende l’arrangiamento di Junior Kimbrough, artista noto negli anni sessanta e riscoperto nei novanta, poco prima della sua morte (1998).

Kimbrough era un ipnotico specialista dell’hill country blues, una tecnica di blues originata all’estremo nord dello stato del Mississippi, sulle colline che confinano con il Tennessee. Uno stile crudo, “percussivo”, ammaliante, magnetico da cui il duo di Akron aveva già attinto per l’esordio, The Big Come Up (2002), arrivando addirittura in seguito a tributare al musicista l’EP Chulahoma: The Songs of Junior Kimbrough, nel 2006.

Ben altre cinque canzoni del nuovo disco si rifanno ancora a lui, ma non solo. Difatti sono presenti nell’album pure Kenny Brown ed Eric Deaton, storici collaboratori di Junior. Il primo lascia una bella impronta, distinguendosi spesso alla slide, ad esempio rinvigorendo una altrimenti spenta Coal Black Mattie, mentre il secondo svolge il suo compitino, senza ravvivare il groove, a volte un po’ troppo addormentato, di alcuni pezzi.

Diventa così importante il contributo all’organo di Ray Jacildo nel rifacimento del classico di Big Joe Williams, Mellow Peaches e nella susseguente conclusiva Come On and Go with Me, non a caso tra le meglio riuscite. Permane il pensiero che si sarebbe potuto sfruttare di più e non coinvolgerlo solo, oltre alle due tracce citate, per la cover Going Down South di R.L. Burnside, altro mito del blues diventato famoso a più di sessant’anni, alla fine degli eighties.

In un’intervista di presentazione del lavoro Patrick Carney specifica come è nato Delta Kream: “Abbiamo registrato l’intero songbook in dieci ore. Sono bastati due pomeriggi, senza particolari pianificazioni e con pochi giorni di preavviso.” Tutto ciò è avvenuto al termine del “Let’s Rock Tour” (2019) in cui viene promozionato il primo album che segna la separazione dallo storico produttore Danger Mouse. Ora le scelte musicali diventano interamente del duo e la prima mossa sarà l’eliminazione delle tastiere, che tanto avevano caratterizzato invece opere come Turn Blue e il best seller El Camino.

Può essere quindi che la decisione di concentrarsi su chitarra, basso e batteria sia retaggio di una nuova ricerca di stile. In poche parole una nuova direzione per ciò che vogliono essere i Black Keys nel 2021. Certamente Stay All Night è il miglior esempio di questo percorso e la sua freschezza è sicuramente dovuta alla velocità con cui è stata conseguita. Buddy Guy echeggia in questa traccia e non è un male, ma è solo un altro lampo di sole prima del ritorno delle nubi. Soffermandoci sulla voce di Dan Auerbach, non si può che notare poca capacità interpretativa, poca “sofferenza”. Non si sta affermando che non sia bella, semplicemente non sembra adeguata a ciò che sta proponendo.

Ad esempio in Sad Days, Lonely Nights, brano tra l’altro dal ritmo perentorio e azzeccato, un boogie accelerato con la sei corde piacevolmente in primo piano, sembra di sentire il primo Joe Bonamassa, di cui non si possono discutere bravura e passione, stiamo parlando di un artista fenomenale, capace di soli pirotecnici, molto maturato e davvero “immerso” nella musica del diavolo, ma, se gli si volesse trovare un difetto, a volte in gioventù sembrava senz’anima, principalmente proprio nel “cantato”.

La stessa sensazione si prova in Louise, classico di Mississippi Fred McDowell: basta recuperare e ascoltare l’originale per rendersi conto che il blues è fatto di sudore, sangue e sporcizia, perlomeno deve trasparire il dolore causato dall’esistenza, un’esistenza con cui ci si vuole continuamente confrontare anche se consapevoli alla fine di venirne sconfitti. Il tappeto percussivo fenomenale sapientemente creato da Sam Bacco insieme a Carney, le svisate con il bottleneck e il gran lavoro dell’accoppiata Brown e Auerbach non riescono a sopperire alla carenza di cui si è parlato sopra.

“My blues are so simple, but so few people can play it right.” Muddy Waters

“Il mio blues è così semplice, ma davvero poche persone sanno suonarlo bene”.

Questa frase del mitico Muddy incarna la lezione che ci hanno dato lui, B.B. King e prima ancora Blind Willie Johnson, Son House e Robert Johnson: semplicità, che non coincide con facilità, come saper suonar bene non significa essere perfetti.

Ai Black Keys bisogna comunque essere riconoscenti enormemente perché, grazie alla loro popolarità e dedizione, molto probabilmente vi sarà una parte di pubblico e di fan che si volterà indietro e cercherà i maestri citati sopra, ma soprattutto si avvicinerà a questa musica dal carattere marcatamente alternativo, patrimonio inalienabile della storia. Una musica che sa far provare forti emozioni, che instilla quella sensazione di felicità e tristezza allo stesso tempo, che fa star bene, ma spinge alle lacrime, “This is the Blues” .


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