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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
10/01/2019
Prince
Dirty Mind
Dirty Mind è un balzo in avanti radicale che asfalta le leziosità pop in salsa dance del passato per combinare le complessità ritmiche del funk più nero con l’impatto senza fronzoli dell’attitudine punk.

Dirty Mind è uno degli album fondamentali nella discografia di Prince. Gli otto brani che lo compongono furono scritti e incisi su un sedici piste durante l’estate del 1980; Prince fece tutto da solo.

“Erano semplicemente canzoni che volevo ascoltare per il mio piacere personale; all’inizio non pensavo che sarebbero finite tutte su un album. Credo provenga da qui la qualità molto diretta del materiale”.

Per quanto tecnicamente ineccepibili, i due album precedenti – l’esordio For You (1978) e Prince (1979) – non avevano certo brillato per originalità, inzuppati com’erano di innocuo soul zuccheroso a far da contorno a ovvi tormenti adolescenziali. Fino a quel momento l’immagine di Prince era tutto sommato quella del bravo ragazzo povero, solo e incompreso capace di suscitare un istinto materno quasi incontenibile, salvo poi rivelarsi, al momento opportuno, insaziabile porcellone senza pari.

Benché trattato da una prospettiva romantica e mediato da un intenso uso di metafore, il sesso era già un tema predominante, ma quando il management si riunì, assieme alla futura star, per ascoltare i demo di quello che sarebbe dovuto essere il nuovo (e terzo) album, “non fu molto felice. Parlammo a lungo su ciò che sentivo essere vicino alla mia vera essenza, alla mia vera immagine, e pensavano che mi fossi bevuto il cervello.”

Immagino sarebbe stato uno spasso per chiunque poter vedere le facce dei dirigenti della Warner Bros mentre ascoltavano l’incipit della title-track che apre l’album:

There’s somethin’ about you, baby

It happens everytime

Whenever I’m around you, baby

I get a dirty mind

It doesn’t matter where we are

It doesn’t matter who’s around

It doesn’t matter

I just wanna lay you down

Questi sono i versi forse meno scabrosi dell’opera. Roba che scotta(va), dunque. Qualche alto papavero della casa discografica cadde dalla sedia. Invece di continuare a costruirsi una carriera sulla già acquisita e solida fan-base di appassionati soul e disco, Prince scelse di virare con derapata verso un sound grezzo e sporco, con ammiccamenti al rock e testi che parlavano in modo esplicito di sesso orale, sadomasochismo e incesto.

“Non volevo essere deliberatamente provocatorio; volevo essere deliberatamente me stesso”.

Steve Fargnoli (manager di Prince dal 1979) sudò le proverbiali sette camicie per convincere la Warner a pubblicare quei demo come nuovo album di Prince, e noi non gli saremo mai grati abbastanza per esserci riuscito. Fu immediatamente ovvio che le radio non avrebbero mai trasmesso quelle canzoni; la Warner, inoltre, non volendo correre alcun rischio legale, fece apporre sulla copertina uno sticker che avvertiva il potenziale acquirente del “linguaggio inappropriato” contenuto nel disco.

Di lì a un lustro, Mary Elizabeth “Tipper”, moglie di Al Gore, fondò, assieme alla sua gang di mamme bigotte, il famigerato “Parents Music Resource Center”, meglio noto come PMRC[1], un’associazione (sulla carta) “con lo scopo di valutare sotto il profilo morale ed educativo il contenuto dei prodotti discografici, in particolare per quanto riguarda i riferimenti sessuali più o meno espliciti che essi veicolano”, ma che, di fatto, era una vera e propria setta votata alla censura, contro la quale si scagliò la gran parte dei musicisti statunitensi[2].

Non solo è assai improbabile che Prince non avesse meticolosamente calcolato, in termini di notorietà, l’impatto delle polemiche che la pubblicazione di Dirty Mind avrebbe scatenato, ma contribuì egli stesso a gettare benzina sul fuoco difendendo a spada tratta il crudo realismo dei testi: “I miei testi parlano di ciò che vedo e sento tutti i giorni. Le stazioni radio che si rifiutano di mandare in onda il disco stanno semplicemente rinnegando ciò che anche loro sanno benissimo, e che è pubblico, sotto gli occhi di tutti”.

La foto di copertina, in bianco e nero rigorosamente low profile, fu scattata da Allen Beaulieu su precise indicazioni dello stesso Prince. Quasi anonima a un primo sguardo, avrebbe dovuto sviluppare il “fattore shock” a successive (e più attente) occhiate. Stando a quanto dice il fotografo, “Prince voleva questa immagine da perdente di cui la gente parla, e non qualcosa da promuovere tramite i canali pubblicitari convenzionali”. Il ragazzino caruccio e perbene si è trasformato in un losco figuro porno-punk: minaccioso, poco raccomandabile e lascivo. E non certo a causa di quella spilla dozzinale sul risvolto del trench che recita “RUDE BOY”.

Dirty Mind è un balzo in avanti radicale che asfalta le leziosità pop in salsa dance del passato per combinare le complessità ritmiche del funk più nero con l’impatto senza fronzoli dell’attitudine punk.

È musica potente, ricolma di fortissima tensione emotiva. Al rogo, dunque le sofisticazioni di For You e certe stucchevolezze dell’omonimo album susseguente: il sound s’irruvidisce e si carica di una spontaneità quasi garage, mentre lussuria e lascivia spazzano vie le delicate suggestioni sensuali per lasciare spazio a un mood intriso di cupa perversione. Prince concupisce chiunque si trovi sul suo cammino… Per il Nostro, il sesso non è soltanto la più elevata forma di piacere, ma è un atto di ribellione contro la “normalità” imposta: affiorano qui, per la prima volta, scampoli di tematiche sociali che avranno ulteriore sviluppo – con esiti non sempre felici, a dire il vero – nel successivo Controversy.

Una grancassa pulsa un veloce beat in 4/4 accompagnata dal basso che reitera un’unica nota ripetuta sugli ottavi: la title-track, in apertura, non fa prigionieri. Dopo quattro battute, un metallico riff di synth e scarni fill di chitarra completano il quadro. Il brano è, di base, una variazione su un solo accordo, tecnica che diverrà uno dei tratti peculiari del futuro “Minneapolis Sound” fino alla fine degli anni Ottanta. Il brano preserva una qualità spontanea lontana anni luce dalle levigatezze soul di “I Wanna Be Your Lover”, per scegliere un esempio, una qualità che è tipica del rock e che viene messa in bella evidenza nella successiva “When You Were Mine”, power-pop in chiave sixties con retrogusto blues arricchito da un magistrale assolo di organo e da un testo che pare essere un’apologia della sottomissione:

When you were mine

I gave you all of my money

Time after time

You done me wrong

‘cuz just like a train

You let all my friends come over and eat

You were so strange

You didn’t have the decency to change the sheets

Più avanti apprendiamo che non solo la ragazza non si curava nemmeno di cambiare le lenzuola una volta consumato il tradimento, ma che lui (Prince) non era certo “il tipo da far casino quando il tuo amante dormiva tra noi due”. Che volete di più da un uomo?

“Do It All Night” è bubblegum pop-rock di pregevole fattura, anche se appena meno ispirato dei due brani che lo precedono. Prince vuole “farlo tutta la notte”: questo, semplicemente, il messaggio diretto alla fortunatissima ragazza (probabilmente non avvezza a cotanta mascolina generosità) oggetto delle di lui attenzioni. Dopodiché il piccoletto si premura di confessarci che possiede anche un cuore. Infranto, per giunta.

“Gotta Broken Heart Again”, unica ballad del lotto, sembra più appartenere al “vecchio Prince”, tanto suona a tratti stucchevole e manierata nella sua adolescenziale smania soul in 12/8; passa senza colpo ferire e serve da break prima del torrido, devastante terzetto a seguire.

La strabiliante e malefica “Uptown” arriva prepotente come un uppercut improvviso: iper-funky, ballabile, vigorosa. Stando a quanto afferma l’allora chitarrista della band, Dez Dickerson, il brano nacque da una linea di basso che André Cymone suonava durante le prove a mo’ di riscaldamento. Il che fece sorgere una disputa (non sarà né la prima né l’ultima) sul paternità del pezzo[3].

“Uptown” è una brano cruciale per comprendere Prince. Il concetto di “liberazione” – uno dei temi cardine del suo immaginario – dalle restrizioni e dalle convenzioni sociali viene qui trattato con estrema arguzia. “La canzone parla di uno stato mentale che tutti abbiamo ma che abbiamo paura di mostrare. Uno stato mentale di totale apertura: si tratta di essere aperti verso ciò che non comprendiamo. Come, ad esempio, l’omosessualità.”

La traccia successiva è – per chi scrive – il vertice dell’album. Più che una canzone (e lo è), “Head” è un vero e proprio studio sul ritmo e anticipa un’idea che Prince svilupperà compiutamente quattro anni dopo con “Kiss” e, più in là, con “Sign O’ The Times”: anziché poggiare sulla scansione ritmica dei toni più gravi, Prince “incastra” una singola, breve frase di basso all’interno di un pattern di batteria “strettissimo” e lega il tutto con uno scarno fill di tastiere, costruendo attorno all’ascoltatore una gabbia funky dalla quale è impossibile liberarsi se non ballando.

And you said: “I’m just a virgin

And I’m on my way to be wed

But you’re such a hunk so full of spunk

I’ll give ya

Head – till you’re burnin’ up

Head – till you get enough

Head – till your love is read

Head – love you till you’re dead

L’attitudine punk si fa sentire nella successiva “Sister”, serrato garage-rock in cui Prince canta di un incestuoso rapporto con la sorella maggiore[4].

A chiusura dell’album, un altro brano dalla genesi piuttosto controversa. Secondo gli amici e glòi addetti ai lavori di Minneapolis, “Partyup” era un brano composto da Morris Day; a Prince piaceva così tanto che propose all’amico di acquistarlo pagando non in denaro, ma con la formazione di una band di cui Morris sarebbe stato il leader: The Time. Naturalmente, la verità non si saprà mai; la canzone, tuttavia, è perfettamente in linea con lo stile del disco: un torrido funk da dancefloor.

I singoli estratti, “Uptown” e “Dirty Mind”, vendono poco ma l’album si attesterà attorno alle 400.000 copie, risultato notevole considerata la pressoché totale assenza di supporto promozionale da parte delle radio americane. Ciò portò Prince a concedere quante più interviste possibili. Saranno le ultime, almeno fino al 1985.

In questo contesto accade tuttavia un fenomeno curioso (e voluto): il pubblico inizia a considerare Prince come autore e performer, e non più solo come un nome legato alla hit del momento (come avvenuto l’anno precedente grazie allo straordinario e improvviso successo di “I Wanna Be Your Lover”. I concerti, pur se in club o locali in grado di ospitare dalle tre alle quattromila persone, vanno tutti sold-out e in questo giocherà un ruolo fondamentale il passaparola del pubblico. Dulcis in fundo, tra i fan cominciano a spuntare anche “visi pallidi” ovvero bianchi…

Il “Dirty Mind Tour” apre a Buffalo il 4 dicembre 1980 con Teena Marie come guest star di supporto e prosegue per tutti gli States fino all’aprile del 1981. Lo show, ancora lontano dalla faraonica spettacolarità dei tour di 1999 e Purple Rain, è comunque rifinito fin nei minimi dettagli e costruito per far brillare al massimo il talento stupefacente di Prince. Per trovare paragoni opportuni, la critica tirò, a giusta ragione, in ballo Hendrix, James Brown e Sly Stone.

Le influenze punk e new wave penetrarono anche nel look: Dex Dickerson si presentava sul palco coi capelli color arancione e camicette (o magliette) tenute insieme da spille da balia, mentre Matt “Dr.” Fink, abbigliato da chirurgo con tanto di mascherina sulla bocca, coi suoi movimenti robotici sembrava fare il verso ai Devo.

L’album e soprattutto il tour suscitarono curiosità e interesse e contribuirono ad allargare il pubblico di Prince ben oltre i confini del soul e della disco. Il seme per il tanto anelato “attraversamento” delle barriere razziali è stato piantato. Nei tre anni successivi, da quel seme germoglierà un giardino che porterà Prince sulla vetta del mondo.

 

[1] Fu proprio una canzone di Prince, “Darling Nikki”, tratta da Purple Rain del 1984, a scatenare le ire di “Tipper”.

[2] A questo proposito, cercatevi sul web l’audizione al Senato tenutasi il 19 settembre 1985 sul tema PMRC e godetevi l’intervento di Frank Zappa

[3] Nell’estate del 1981 la disputa si trasforma in rottura insanabile: il bassista lascia la band e viene rimpiazzato da Brown Mark.

[4] Per ovvi motivi di spazio, non è possibile qui riportare tutti i testi; il mio consiglio è tuttavia quello di recuperarli e leggerli mentre si ascolta l’album, prestando molta attenzione alle sottolineature musicali e all’interpretazione vocale.