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REVIEWSLE RECENSIONI
25/03/2019
Dream Theater
Distance Over Time
Dopo l’ambizioso “The Astonishing” i Dream Theater tornano con “Distance Over Time”, un lavoro di squadra letteralmente fatto in casa. Forse l’album più semplice e diretto che la band abbia mai realizzato.

Una delle tante leggi non scritte del Rock recita che a un album ambizioso e complesso generalmente ne segue sempre uno più essenziale e lineare. E così hanno fatto anche i Dream Theater, che a The Astonishing, una vera e propria opera Metal lunga 130 minuti in bilico tra Game of Thrones e Star Wars (accolta benissimo dalla critica e un po’ meno dai fan storici), hanno fatto seguire questo Distance Over Time, forse l’album più semplice e diretto che il combo di New York abbia mai realizzato.

Preso atto di aver forse osato troppo con The Astonishing, progetto curato in maniera esclusiva da John Petrucci e Jordan Rudess, per Distance Over Time i Dream Theater sono ritornati a lavorare in team, coinvolgendo in maniera più attiva anche i rimanenti membri della band. Per cui, quando è stato il momento di comporre il primo album per la loro nuova casa discografica (la Inside Out, dopo oltre un decennio in Roadrunner), la band ha fatto la mossa più ovvia e allo stesso tempo più classicamente Rock n’ Roll di tutte: ha affittato una casa/studio nella campagna montuosa di Monticello, nella contea newyorkese di Sullivan (adiacente a quella di Ulster, dove, nella cittadina di West Saugerties, The Band ha inciso The BasementTapes con Bob Dylan e ha composto Music from the Big Pink – della serie: tutto torna) e ha vissuto assieme per quattro mesi, passando la giornata a suonare e registrare e la sera a organizzare grigliate, godendosi la tradizionale birra di fine giornata, soddisfatti del lavoro svolto (come testimonia il profilo Instagram della band).

Quello che ne è uscito è un album fresco e ispirato, dove ogni membro del gruppo è sugli scudi e dove, per la prima volta, si ha la sensazione che i Dream Theater post-Mike Portony possano definirsi nuovamente una band e non un ensemble di cinque virtuosi. Se dal punto di vista delle prestazioni dei singoli c’è davvero poco da dire talmente sono tecnicamente inattaccabili – il trio Petrucci-Rudess-Myung che rasenta la perfezione, un Mangini finalmente inserito (anche se chi scrive non ama particolarmente il suono del suo rullante, ma queste sono personali idiosincrasie che non hanno nulla a che fare con la prova del buon Mike) e un LaBrie in buona forma che sperimenta con gli effetti vocali –, quello che convince maggiormente è la scrittura delle canzoni. 

Seguendo la lezione dei maestri Rush, che hanno sempre fatto sembrare semplici le cose più complicate, mettendo i virtuosismi al servizio della canzone, in Distance Over Time i Dream Theater offrono all’ascoltatore nove canzoni lineari, dove la ricerca della melodia e del bel riff è al centro del processo di scrittura. Il primo singolo, l’opener “Untethered Angel”, e “Paralyzed”, sono puro Heavy Metal classico, con Petrucci e Myung che si scambiano riff su riff, sostenuti da un tappeto di organo di Rudess e un’imponente base percussiva di Mangini. In “Fall Into the Light” Petrucci mette in chiaro che è ancora lui il re dello shredding, mentre “BarstoolWarrior” e “Out of Reach” (l’unica vera ballata del disco) con le loro sonorità più Progressive, sono dalle parti degli Emerson Lake & Palmer e dei Genesis epoca Gabriel/Hackett. Ma i due momenti più convincenti ed emotivamente più forti di tutto l’album si trovano alla fine del disco, con le due canzoni più lunghe: “At Wit’s End” (dove il narratore offre il suo aiuto a una donna rinchiusa in sé stessa dopo essere stata vittima di uno stupro) è un brano ipnotico, 9 minuti e 20 secondi carichi di pathos, mentre “Pale Blue Dot” (che cita la celebre frase di Carl Sagan per descrivere la Terra vista dallo spazio) è pura musica cinematica, tra Ambient, Sci-fi, Progressive e Metal.

A voler trovare paragoni nella discografia passata dei Dream Theater, questo Distance Over Time è un interessante incrocio tra la spensieratezza dell’album di debutto When Dream and Day Unite e l’oscurità aggressiva di Train of Thought, due lavori diversissimi tra loro, ma che qui trovano la perfetta sintesi, tra tecnicismi al servizio delle canzoni e una carica Heavy Metal che dà corpo a tutto. I Dream Theater di capolavori come Images and Words e Scenes from a Memory non ci sono più, ed è giusto così, ma in Distance Over Time ci sono cinque splendidi cinquantenni che si divertono a fare musica come fossero ragazzini alle prime armi, pieni di energia e creatività. Con quasi trentacinque anni di storia alle spalle e quattordici album all’attivo, questo è forse il miglior complimento che si possa fare a un gruppo come i Dream Theater.

[E questo senso di spensierato divertimento si percepisce anche e soprattutto nella bonus track “Viper King”, un pezzo che è in tutto e per tutto un divertissement, dove i Dream Theater giocano a fare il verso ai Deep Purple di In Rock e Machine Head. Con un titolo che richiama sia “Speed King” sia “Highway Star”, in “Viper King” John Petrucci e Jordan Rudess emulano Ritchie Blackmore e Jon Lord, scambiandosi assoli a non finire. Una canzone godibilissima, un Rock/Blues davvero divertente, ma che, a conti fatti, è così fuori tema e sopra le righe che è giusto non faccia parte della tracklist del disco.]