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REVIEWSLE RECENSIONI
06/09/2023
Federico Dragogna
Dove nascere
Viviamo in un panorama culturale bolso, poco o per nulla propenso alla curiosità. Ci siamo lasciati tramortire dall’ordinario e abbiamo perso la corsa verso la “fantastica” di Gianni Rodari. Forse sarebbe ora di tornare a riscoprire l’inutile ed il suo potere rivoluzionario. Bruno Munari ha tracciato una rotta, Federico Dragogna, con l’album “Dove Nascere”, l’ha seguita alla perfezione.

Circa novant’anni fa Bruno Munari inventava la prima delle 93 “macchine inutili” che avrebbe costruito nei quindici anni successivi, dimostrando, nella maniera più tangibile che ci possa essere, che quando uno è artista (artista per davvero) vive una specie di realtà aumentata, che appartiene solo ai più grandi.

Il punto è che la “filosofia” delle macchine inutili che Munari teorizza nel luglio del 1937 sul mensile La Lettura è di una modernità e, forse peggio ancora, di una contemporaneità quantomeno allucinanti. Perché se «oggetti da guardare come si guarda un complesso mobile di nubi dopo essere stati sette ore nell’interno di un’officina di macchine utili» è la definizione che il nostro dà alle sue invenzioni, lo scopo politico (vero e per nulla nascosto) sta più in basso, alla fine dell’articolo: «Una macchina inutile, che non rappresenti assolutamente nulla, è il congegno ideale grazie a cui possiamo tranquillamente far rinascere la nostra fantasia, quotidianamente afflitta dalle macchine utili».

Il lavoro di cesello operato sulle parole è pazzesco: le macchine utili “affliggono”. Lo facevano già novant’anni fa, figuriamoci adesso, in uno spazio-tempo che ha fatto della rincorsa forzata all’utilità il suo mantra unico. Col sottotesto che quelle inutili, al contrario, proprio per la loro potenzialità “fantastica”, diventano pericolose. E allora il sistema mette in atto il più classico degli stratagemmi per liberarsi di un pericolo: criminalizzare l’avversario o, in casi del genere, ridicolizzarlo e appiccicando su quell’”inutile” una cappa di disprezzo.

 

Il gioco “utile-buono/ inutile-cattivo" si può applicare allegramente alla musica stessa. O, meglio ancora, alla sua fruizione.

E, per la cronaca, è abbastanza divertente il paradosso che mi porta a parlare di inutilità fra le righe della regina delle cose inutili, che è recensire dischi nell’epoca del disinteresse capillare, figlio delle playlist dopate di Spotify e delle sue royalties; il tripudio dell’inutilità.

Ora, la declinazione musicale del giochino cui accennavo sopra è di facile lettura: la musica “utile” è diventata quella che macina stream, che fa numeri fosforescenti, quella a cui non puoi dire nulla perché “Eh, ma hanno successo, significa che sono bravi”. Discorso, questo, che diventa analogo, giusto per continuare a parlare di cose inutili, se ci spostiamo sui terreni della stessa critica musicale: una recensione è buona solo se è funzionale, corta e diretta. Ecco, no: quelli si chiamano comunicati stampa.

Anche qua mi sento di difendere il mio diritto all’inutile, alla prolissità, al racconto, alla pesantezza se ne ho bisogno, perchè se l’essere ormai perfettamente (o quasi) superflui ha un vantaggio è proprio quello di permetterci di fare quello che vogliamo.

A condizioni del genere, in un continuo gioco dei ribaltamenti, è evidente che la musica inutile finisca per essere quella davvero necessaria, quella con qualcosa da raccontare e che esiste innanzitutto per intimo bisogno del suo creatore.

 

Per esempio, Dove nascere, il disco di Federico Dragogna (qui coadiuvato dalla bella produzione di Mattia Cominotto), lavoro che, fra le altre cose, dopo vent’anni di quel cingolato rock che sono I Ministri, ne segna l’esordio solista, è per il nostro zeitgeist un qualcosa di perfettamente inutile. Lo è essenzialmente per un motivo: è una (quasi) perpetua e torrenziale cascata di domande senza risposte. E in un mondo autoassolutorio e costantemente alla ricerca di canzoncine rassicuranti non è esattamente un buon biglietto da visita.

Oltre a questo, fa da trampolino di lancio per un’altra considerazione spicciola, questa volta come semplice “fenomeno di costume”: negli ultimi tre anni sono usciti, oltre a Dove nascere, altri tre dischi solisti di frontman storici del nostro panorama alternativo: Cristiano Godano, Francesco Bianconi e Manuel Agnelli. Ecco, penso sia interessante notare come tutti e quattro i cantautori in questione (forse con l’eccezione, ma neanche tanto, del solo Agnelli) si siano, fondamentalmente, discostati dai loro stilemi abituali: Bianconi con quella vera e propria raccolta di lieder che fu Forever, Godano palesando le sue aderenze da folksinger con Mi ero perso il cuore, Agnelli impastando il suo Ama il prossimo tuo come te stesso di ballatone melodiche e catenate sulle gengive. E adesso Dove nascere ci regala un Dragogna ineditamente elettronico.

 

L’essere terribilmente (e volutamente) poco rassicuranti, per fortuna, parte già da lì, dalla capacità di riuscire a spiazzare pur non arretrando di un millimetro. Come se non bastasse, sempre a vittoria eterna dell’inutile, il buon Federico ha pure aperto un blog omonimo in cui ha condiviso, di volta in volta, ispirazioni o semplici frasi legate alle canzoni del disco: più inutile di così!

Ad ogni modo, arriviamo al succo del discorso: album aperto dall’elettronica abissale di una “Dubbi” stressata da un pattern ritmico vorticoso, appena alleggerito dagli arpeggi sabbiosi della chitarra acustica, che finiscono per incastonare perfettamente versi irrisolti, dal “Dubbi ne abbiamo tutti, ma i nostri dubbi vanno a letto tardi” del ritornello ai vari “Che cosa ci stiamo dicendo quando ci diciamo che è tutto normale?” o “Incatenati a una vita speciale, navi giganti cullate dal mare”.

A seguire, “Scomparire il rumore”, scandita dall’arpeggiare assolato di una languida chitarra elettrica, ben scortato da un tappeto di synth e trascinato da una cassa dritta, in un pezzo che, nel suo non esplodere del tutto, affresca perfettamente quel sottofondo (neanche troppo velato) di precarietà viaggiante reso, ad esempio, da “Come animali prima di un terremoto, sapevamo di dover scappare. E ci siamo staccati dal suolo, nel parcheggio di un ospedale, ed abbiamo viaggiato per giorni per far scomparire il rumore”.

“Musica per aeroporti” (pezzo nominalmente striato di Brian Eno) affonda fra asfissie elettroniche e paranoie sintetiche, perfettamente accordate alla metrica incessante del cantato. Non esito a dire che è una canzone di cui mi sono innamorato subito, la trovo geniale: descrive perfettamente il turbinare asettico del “non luogo” aeroportuale, e, con quel “Musica, musica, musica per aeroporti, pulita e gratis come i loro bagni”, tira giù un parallelismo fenomenale con le magnifiche sorti e progressive della musica pop, nella sua immediatezza più deteriore e consumisticamente paillettata.

 

La title- track si avvinghia agli arpeggi malinconici dei sintetizzatori, sorretti da una viscerale linea di basso e squarciati dai fraseggi disperati del sax e dalle abrasioni elettriche della chitarra. A fare quasi da contraltare, arrivano stralci letterari crudamente sarcastici, da “gente che rischia la vita senza riflettere, che non riesce proprio a calmarsi e ad aspettare il futuro. E ancora insistono, si disidratano” per arrivare al “sappi che qui da noi non si sta poi così male, c’è gente che rischia la vita anche soltanto per venirci a morire” finale.

“Spugna” è trascinata da un assolato strumming acustico in salsa mediterranea, allargato dai fraseggi umidi della tastiera. Ora, posto che l’“anima in spugna” sia una immagine stupenda, anche qui (“E dimmi, cosa è successo ai nostri superpoteri che ci facevano guardare attraverso le cose fino a vedere i nostri desideri? Tutto lascia pensare a un avvelenamento”) si viene presto abbracciati da una disillusione triste, solitaria, che, in verità, fa da centratissima cartina tornasole dei nostri tempi.

 

Giro di boa del disco è “Non tornare adesso”, malinconicamente poggiata su un delicato strumming acustico, contrappuntato da agrodolci incursioni elettroniche, sfondo perfetto per un testo sanguinante, che quel “Ieri sera c’era il cielo che non mi guardava” graffia di un Leopardi (scusate) quasi apocrifo. Di tutt’altro tenore è, invece, “Lavorare è il mio secondo lavoro”, avvolta dalle ossessioni ritmiche di un basso incessante e di una batteria sinuosa, e dinamizzata dai fraseggi anestetizzanti della chitarra elettrica. Il lato letterario sgancia un uppercut clamoroso con l’altissimo voltaggio esistenziale di “E mi conosco per sentito dire, ma non decido io cosa pensare. Sono un fiume con un po’ di orgoglio, so solo scendere ma cerco di farlo al meglio”.

“Cascate” affonda in malmostose paludi elettroniche, da cui emergono sintetizzatori umbratili e cupi strumming acustici, in perfetta concordanza con l’atmosfera da stasi collosa e straniante (“Non riesci a capire qual è il momento per saltare, lasci fare al fiume e aspetti le cascate”) che si respira fra le pieghe del testo.

 

Si prosegue con “Fibra”, attraversata dalle pennate brumose della chitarra acustica e sporcata dagli schizzi ventosi dell’elettronica. A segnare ogni verso ci pensa una densissima carica fotografica, che cristallizza istantanee brutaliste come “Brilla un’isola di ferro in mezzo all’adriatico, crescono nuovi coralli attorno a un vecchio cavo del telegrafo. Fibra ottica veloce più del vento, più del diavolo, abituati alla magia, vaccinati contro ogni miracolo”.

“Sentiti libero” si srotola lungo un simil spoken word martellante sostenuto da un vestito sonoro in odore di industrial, con chitarre elettriche al fulmicotone a sventrare le acidità dei sintetizzatori. Il fiume di parole asfissiante prosegue, anche in questo caso, per immagini fulminanti e disincantate, da “La tua stanza aspetta di essere pulita, la tua adolescenza di essere tradita” a “E un giorno passi in rassegna i tuoi sogni, sono gli stessi da quindici anni: volevi cambiarli, ma poi hai pensato ‘Quanto ci metto a ridisegnarli?’”, passando per “Il tuo futuro ostaggio del progresso, preghiere in cuffia, coscienza assolta, speranze riposte in una città già morta”.

“Sei diventato un uomo” riabbraccia atmosfere più melancoliche, con gli arpeggi umidi della chitarra elettrica ad addolcire il pattern ritmico della drum machine e sciogliere le tensioni create dai sintetizzatori. “’Sei diventato un uomo, sei diventato un uomo’ Me l'hanno detto ieri. Bastava poco allora, tenersi dentro tutto, tenersi sul sentiero e tener duro quando si ride di meno. Sei diventato un uomo e non capisci quando è giusto star da soli, se è giusto star da soli. E cosa dire per farsi volere bene: sarò sincero o non sarò sincero? Non sarò sincero”. Così, senza nessun bisogno di altre parole, che già dicono tutto queste.

 

A chiudere il disco ci pensa una “Cacciatori” che si srotola lungo l’arpeggiare denso della chitarra, ulteriormente ispessito dall’incedere quasi marziale della ritmica e dalle incursioni dei fiati di Enrico Gabrielli, a tratteggiare un arrangiamento splendidamente ribaltato dalla melancolia del ritornello, “E quasi al tramonto i cacciatori si accorsero di essere soli, si misero a camminare senza più sparare. Quasi al tramonto venne fuori che le cose che avevi scelto non erano quelle a cui tenevi di più”.

In conclusione, ci troviamo di fronte ad un album ispirato, figlio di quella ruvida grazia letteraria cui Federico ci ha abituati, e che, rarefatta dai vortici di elettronica, finisce spesso per risultare ancora più sanguinante del suo alter ego elettrico. Ne viene fuori un lavoro resistente, stressato da momenti di nevrosi e aperto da pezzi più distesi, in rincorrersi spastico che fotografa perfettamente il circostante, disegnando un breviario di incertezze genuino e necessario.