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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
01/12/2023
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Edless
Perseveranza e voglia di suonare hanno sempre la meglio, e se ci si abbina anche talento, gusto e ottima resa live che volere di più? Abbiamo fatto due chiacchiere con gli Edless in occasione del loro primo album, "Editing a Dream".

È bello vedere che alla fine la perseveranza e la voglia di suonare hanno avuto la meglio. I milanesi Edless hanno rischiato di perdersi per strada, dopo che nel 2016 il loro secondo EP Belotus aveva colpito molti addetti ai lavori, gli aveva fatto guadagnare un discreto pubblico e aveva posto le basi per quella che avrebbe potuto divenire una carriera ricca di soddisfazioni. Difficoltà varie, a cominciare dalle decisioni riguardo la direzione da far prendere alle nuove composizioni, hanno dapprima rallentato, poi decisamente bloccato il quintetto, nel frattempo ridottosi a quattro elementi, per la fuoriuscita del tastierista Leonardo Musumeci.

Il Covid non ha aiutato, e la scena musicale che ha iniziato a configurarsi dopo i tre anni di epidemia non assomiglia più a quella che c’era prima. Nel frattempo il gruppo è tornato in pista, ha ritrovato l’entusiasmo e le motivazioni necessarie per completare i nuovi brani, e ha pubblicato Editing a Dream lo scorso ottobre, forte anche della partecipazione di Taketo Gohara in sede di missaggio. Si tratta di un lavoro convincente, per nulla penalizzato dagli anni di inattività, fresco e maturo, con un’attenzione alla scorrevolezza della forma canzone che in precedenza era sembrata mancare.

Ho parlato di tutto questo assieme a tre dei quattro Edless: Fabio Bonvini (voce e chitarra), Giorgio Pasculli (chitarra e Synth) e Niccolò Rocco (batteria), col bassista Marco Bonvini purtroppo assente per motivi di lavoro. Ci siamo presi una birra nei pressi della loro sala prove e questo, tra una chiacchiera e l’altra, è quello che è venuto fuori.

 

 

Direi di cominciare da questo lungo periodo di pausa che c’è stato: che cosa avete combinato in tutti questi anni?

Fabio: Ci sono stato motivi logistici e organizzativi dietro questo silenzio, nel senso che abbiamo perso il nostro tastierista proprio nel momento in cui eravamo più lanciati col progetto Belotus. Senza di lui è venuta meno una parte fondamentale del nostro sound perché in quel periodo eravamo molto più focalizzati sulla parte elettronica e via dicendo. Questa è stata una bella mazzata, dopodiché abbiamo cercato un sostituto per un anno e mezzo ma non abbiamo mai trovato la persona giusta. Nel frattempo c’è stato il Covid, abbiamo continuato a scrivere, finché non abbiamo capito che non avevamo bisogno di nient’altro se non di noi quattro. Nel complesso è stato un periodo di pausa che ci ha fatto bene: col senno di poi, gran parte del nostro stallo creativo è dipesa dal fatto che avessimo bisogno di separarci un attimo, di respirare individualmente per trovare nuove idee e tornare poi a costruire qualcosa insieme.

Giorgio: E' stata proprio una decisione consapevole: dal punto di vista artistico, certamente, ma anche perché c’è stato tutto un sovraccarico di cose, suonare dal vivo è pesante, soprattutto quando non c’è un tornaconto immediato, io personalmente ho poi avuto anche un momento di nausea generale per tutta la scena musicale. Abbiamo quindi deciso di dedicarci a noi stessi e decidere poi in un secondo tempo se avessimo deciso di ricominciare.

Niccolò: Alla fine abbiamo trovato dei nuovi pezzi e ci è tornato l’entusiasmo giusto per ricominciare.

Fabio: La cosa curiosa è che nonostante tutto questo momento di incertezza e di mancanza di direzione, sono comunque venuti fuori dei brani che ci piacevano, quindi un anno e mezzo fa circa abbiamo proprio deciso che queste cose meritavano di uscire.

Giorgio: Con la prima pandemia ho fatto tre mesi a casa. La scelta era tra ammazzarsi di FIFA e Football Manager oppure di fare qualcosa di costruttivo (ride NDA). Dopo una settimana di videogiochi a tempo pieno, mi sono messo a lavorare: faccio il tecnico del suono per cui ho la fortuna di avere un computer dell’ufficio con installati un sacco di plug in molto fighi. Ho quindi chiuso le pre produzioni di quei brani, impiegando tre mesi di lavoro duro, a tempo pieno. L’ho fatto sentire agli altri ma in un primo momento non ci aveva convinto, è rimasto lì un bel po’ di tempo finché non ci siamo ritrovati e abbiamo deciso di rimetterci mano.

 

Lo stimolo quindi sono stati i brani…

Fabio: Sì, ma anche il fatto che (adesso faccio il romantico) quando ci siamo ritrovati per mangiare una pizza e berci una birra dopo un anno che non ci vedevamo, abbiamo capito quanto ci mancasse stare insieme e suonare. Questo, unito al fatto che i pezzi erano lì, ci ha permesso di rimetterci in pista e di focalizzarci sull’obiettivo.

 

E Taketo Gohara come è venuto fuori?

Giorgio: abbiamo registrato al BlapStudio di Milano. È uno studio molto bello, che negli ultimi anni è cresciuto molto ed ha iniziato a lavorare anche per le major. Il fonico, Antonio Polidoro, ha lavorato più volte con Taketo Gohara e all’inizio l’idea era che, dopo averlo prodotto, in mancanza di una figura esterna importante l’avrei anche mixato, nonostante fosse un lavoro che non non ho mai fatto. Però continuavo a pensare che non fosse l’opzione migliore, che la presenza di un orecchio esterno avrebbe giovato; ad Antonio è quindi venuto in mente di sentire Taketo, l’ha chiamato e lui ha accettato.

 

Immagino quindi che gli siano piaciuti i pezzi: non credo che uno come lui si muova così a caso.

Giorgio: Sì, ha apprezzato il lavoro ed è stato molto disponibile, ci siamo sentiti molto al telefono e ci siamo visti anche di persona. Di base io avevo già i miei mix, glieli ho girati e gli ho chiesto di chiuderli, di dare quel tocco in più che sapevo lui fosse capace di dare. È stato davvero aperto, ci siamo confrontati e ho imparato davvero un sacco di roba; è incredibile come un professionista del suo calibro parlasse con me come se fossi un suo pari, e anche vederlo lavorare di persona è stato incredibile, vederlo tirare su un fader… è stato come veder suonare un pianista! Io lo faccio di lavoro, vedo tanti fonici lavorare ma osservare lui in azione è stata proprio un’altra roba! Siamo tuttora in contatto, ci siamo detti che coi prossimi lavori sarebbe bello lavorare ancora assieme, magari già dall’inizio.

 

Un produttore esterno aiuta, in effetti.

Giorgio: Per produrre la tua roba devi essere davvero esperto, noi siamo troppo giovani e siamo al primo vero disco, è ancora presto.

 

Entrando nello specifico del disco, mi pare che la vostra impronta sia rimasta intatta, nonostante tutto il tempo trascorso. Eppure, se in precedenza sembravate più attenti ai virtuosismi, alle sperimentazioni, adesso c’è una maggiore attenzione alla forma canzone, pur nella grande eterogeneità dei brani: è un disco che dura poco ma c’è dentro veramente un sacco di roba.

Fabio: Quando dici che è eterogeneo credo sia perché si tratta di un lavoro nasce e matura nell’arco di parecchio tempo: probabilmente il pezzo più antico, “The Guest”, risale addirittura al 2015, gli altri sono invece stati scritti tra il 2020 e il 2022. In generale le melodie, le strutture erano quelle, abbiamo più che altro lavorato sugli arrangiamenti, anche in base a quelli che erano i nostri ascolti nei vari momenti.

Niccolò: “The Guest”, ad esempio, era un pezzo che funzionava già allora ma non aveva trovato spazio su Belotus perché c’erano altri quattro brani che ci piacevano di più.

Giorgio: Adesso è stato più che altro un problema di budget. Abbiamo lasciato da parte altri pezzi che erano altrettanto validi ma abbiamo preferito concentrare le nostre risorse sul migliorare il più possibile un numero ridotto di canzoni. Per dire, su “Zero” ci sono 18 chitarre! Abbiamo suonato dal vivo le varie tracce, in studio siamo rimasti in tutto quattro giorni, però poi ci sono un sacco di sovraincisioni fatte soprattutto a casa nostra. È stata davvero una corsa contro il tempo, ma diciamo che per i soldi che avevamo e che per il tempo che ci abbiamo messo è andata benissimo.

Niccolò: Il valore aggiunto è avere Giorgio nella band: ha fatto una quantità di lavoro incredibile che un’altra band che non ha un elemento così dovrebbe far fare qualcuno di esterno e pagarlo! Può sembrare scontato ma è fondamentale.

Giorgio: Negli anni ho sviluppato tutto un sistema per registrare diverse tracce in casa, in modo da risparmiare tempo e soldi, perché in studio se non fai buona la prima poi diventa un casino. Non ci si può certo permettere di starci dentro un mese intero!

Niccolò: Abbiamo cercato di selezionare del materiale che fosse eterogeneo ma che avesse anche una coesione d’insieme, c’è stato un grande lavoro sui suoni, abbiamo dato spazio alle ballate, che ci rappresentano molto a livello di ascolti, ma anche a pezzi più spinti. Infatti non è stato semplice scegliere i singoli.

 

Io ci sento una grande maturazione a livello di songwriting.

Fabio: La nostra idea quando facciamo un pezzo è che non suoni uguale al precedente, cerchiamo sempre la sfumatura inedita. Infatti non c’è nessun brano che ne ricordi un altro o che riprenda esplicitamente certe influenze esterne.

 

Però allo stesso tempo c’è un’identità precisa.

Giorgio: Il nostro dubbio fino all’ultimo è che fosse un disco troppo scollato al proprio interno, ma poi abbiamo visto che non è così. Inoltre, in un mondo dove la gente si annoia subito, fare un disco variegato, dove ogni traccia dà emozioni diverse, funziona

Niccolò: Se fai un disco con sette “Groundhog Day” (uno dei pezzi più tirati e orecchiabili, NDA) magari è anche bello, ti coinvolge nell’immediato ma poi risulterebbe banale. Ad ogni modo questa cosa che ci hai detto, che abbiamo la nostra impronta, è quella che ci gratifica di più; tanta gente ce lo dice: “Ci sento dentro tante cose diverse ma siete sempre voi” e allora questo vuol dire che hai fatto centro.

Fabio: Le influenze sono infinite, a volerle cercare tutte.

Niccolò: E' perché ascoltiamo tutti tante cose diverse.

Giorgio: Però io quando sono in fase di produzione chiudo tutto, non ascolto più niente. Adesso ad esempio ho recuperato tante cose che sono uscite negli ultimi due anni e che non avevo sentito prima e ho scoperto che in qualche modo ci sono arrivato spontaneamente: alcune cose che ho sentito di recente sono in continuità con quello che abbiamo appena fatto ma non è stata una cosa studiata, non ho cercato dei modelli a tavolino, io quando lavoro cerco sempre di non avere riferimenti, in questo modo sono certo di riuscire sempre a tirare fuori la mia musica.

 

Parlando dei testi, comincerei col dire che il titolo è molto evocativo.

Fabio: Come sai non mi piace parlare dei testi. Il titolo in realtà è il primo verso del primo pezzo, “Staring at the Sky”, nato a caso, come tutti i testi che scrivo. Quando ne inizio uno non penso mai se voglio raccontare una storia e che storia voglio raccontare: ragiono molto di più sulle sensazioni, su quello che mi viene in mente di pancia. E, non so perché, su questo brano una delle prime immagini ad uscire fuori fu questa: “Editing a Dream”. Che poi riflettendoci in seguito, da una parte la ricollego ad una sorta di tematica cyberpunk, il poter andare ad agire sui propri sogni, modificarli; dall’altra, le ho dato un’altra lettura, più personale, relativa al fatto che questo sia un disco che rispecchia diverse fasi delle nostre vite, anche le aspettative che avevamo: da bambini abbiamo dei sogni ma poi arriva quel momento della vita in cui capisci che non si realizzeranno mai oppure non si realizzeranno nel modo in cui hai mente tu. E subentra allora un meccanismo di autodifesa per cui ci si raccontano i sogni in modo tale che rispecchino perfettamente quello che avevamo in mente. Mentre invece la cosa importante della vita è proprio accettare che i nostri sogni possano anche non realizzarsi.

 

Dal comunicato stampa ho visto che c’è un filo conduttore che li unisce tutti.

Fabio: E' un disco che parla delle aspettative che uno si pone ma anche perché ti vengono poste dall’esterno, e quindi la pressione che questo ti provoca perché poi uno ha il suo percorso i suoi tempi… sono brani nati in diversi momenti ma alla fine il filo conduttore è quello, come se alla fine ogni canzone andasse a raccontare una fase delle nostre vite.

 

Li hai condivisi con loro mentre li scrivevi?

Giorgio: In realtà io ho letto i testi solo il giorno in cui è uscito il primo singolo…

Fabio: Vabbè ma lì è per pigrizia (risate NDA)!

Giorgio: No, è per il discorso dell’isolarsi di cui dicevo prima. Non volevo sapere di che cosa parlassero i brani, volevo scoprirlo dopo. E mi hanno stupito perché li ho trovati molto belli. Però “At Last” non l’ho ancora voluto leggere perché non mi sento pronto.

Fabio: In effetti è l’unico brano di cui non voglio condividere il dove e come è nato. In ogni caso mi piace l’idea che tu possa fare tuo un testo, pur senza possederne la vera chiave di lettura.

Niccolò: Io apprezzo molto i testi poetici, profondi, che si prestano a molteplici interpretazioni. In più noi tendiamo a fare una musica molto emotiva, per tante ragioni, e dunque anche i testi concorrono a questa emotività.

Fabio: Il problema è che sono in inglese e quindi non li capisce un cazzo di nessuno (risate NDA)!

Niccolò: In più ci sono sotto gli effetti, i cori, figurati!

 

Ecco, a proposito di voce: trovo che il tuo modo di cantare sia decisamente migliorato, la tua prova su questo disco è davvero notevole. Ci hai lavorato in qualche modo?

Fabio: Innanzitutto ti ringrazio. Non ci ho lavorato da un punto di vista tecnico; anzi, credo che da quel punto di vista abbia perso qualcosa, sia perché sono invecchiato sia perché non vado più a lezione. Per questi brani ho provato a pensare non tanto a cantarli “bene”, quanto a farli miei a livello espressivo. In passato mi sembrava di essere molto scolastico, come se dovessi dimostrare a tutti i costi di saper cantare; qui ho provato invece ad essere più libero, a lasciarmi andare di più.

Giorgio: E poi abbiamo pensato di arrangiare le voci in modo tale da non avere mai una linea unica, o addirittura una linea principale, ma di trattarla come uno strumento polifonico. Invece di avere una voce che fa sempre una cosa unica, abbiamo puntato ad averne una che fa sempre tante cose diverse. Abbiamo fatto un lavoro di produzione serio anche sulle voci, ci abbiamo lavorato tanto anche a casa, a tavolino, e questo ne ha beneficiato.

Fabio: Sono anche uscite fuori in maniera spontanea, anche perché nessuno di noi, a parte Giorgio, è particolarmente preparato a livello teorico.

 

Veniamo al discorso tastierista: quando vi ho visto dal vivo, prima dell’uscita del disco, avete utilizzato delle parti pre registrate e devo dire che l’effetto non è stato male. Eppure la mancanza di un quinto elemento non può non sentirsi. Avete già pensato a come la risolverete?

Fabio: Ricordo che quando abbiamo fatto la prima intervista con te ai tempi di Belotus, ci fregiavamo del fatto che tutto ciò che usciva da noi fosse suonato dal vivo. A distanza di qualche anno le cose sono evidentemente cambiate. La domanda la faccio anch’io: come la risolviamo? 

Giorgio: Per il momento la risolviamo che pur di non star fermi…

Fabio: Sicuramente ci abbiamo guadagnato a livello di spazi, se non altro non spaventiamo più i locali (risate NDA)!

Giorgio: Senza dubbio un quinto serve, però deve essere davvero la persona giusta, dovrebbe portare davvero un apporto suo. Che poi adesso abbiamo le sequenze prese direttamente dal disco, isolate e riprodotte, quindi la qualità è ottima.

Fabio: Certo, in quattro stiamo benissimo e già i nuovi brani stanno già venendo fuori da noi quattro. Poi se in futuro dovessimo mettere qualche Synth e suonarlo in base non ci sarebbero problemi. Quello che davvero vorrei evitare è magari di avere un pianoforte senza che ci sia nessuno sul palco a suonarlo.

Giorgio: Se posso contraddire quello che dissi nel 2016, dico che quel che conta è l’esperienza complessiva che tu fornisci del live. Se per migliorare il mio live devo mettere un’orchestra da 60 elementi su una usb, non vedo perché non dovrei mettercela, non vedo perché dovrei mettere dei limiti alla creatività sulla base di principi che rischierebbero di essere astratti. Sai, un conto è il playback, per cui faccio finta di suonare delle cose, un conto è lavorare su quello che la tecnologia ti permette di fare. La cosa bella della modernità tecnologica è che ha tolto un sacco di limiti: devi avere delle idee e devi saperlo fare, basta. Per me andrebbe bene anche il pianoforte a coda col suono perfetto, fa niente se poi sul palco non lo vedi.

Niccolò: La cosa secondo me veramente importante è trovare un quinto elemento che possa mettersi al servizio della resa live di pezzi complessi. Qualcuno che abbia soprattutto la testa giusta, perché il lavoro è grosso, in sala prove bisognerebbe spendere un sacco di tempo per mettere a posto le cose.