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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
14/12/2022
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Eugenia Post Meridiem
In occasione del live all'Arci Bellezza, il nostro Luca approfitta per una bella manciata di chiacchiere con gli Eugenia Post Meridiem. Un dialogo ricco e fresco con a seguire un piccolo report della serata, quella di un concerto bellissimo che non si può che consigliare a chi ancora non avesse avuto modo di conoscere una delle più interessanti band italiane del momento.

Ho già parlato in questa sede di Like I Need Tension, brillante sophomore dei genovesi Eugenia Post Meridiem, un lavoro che si candida tranquillamente tra i migliori usciti quest’anno nel nostro paese. La prova, oltretutto, che anche in Italia è possibile staccarsi dalle mode ed inseguire un percorso il più possibile personale.

Questa sono di scena all’Arci Bellezza, divenuto ormai la sede principale per i concerti milanesi delle band della scena italiana (anche perché non ne rimangono poi molti, purtroppo). L’occasione è un’altra serata organizzata dai tipi di Caramello, col programma che comprende anche il release party del nuovo disco dei Nobody Cried For Dinosaurs. Gli Eugenia suoneranno per primi e quando arrivo sul posto li trovo tutti e quattro seduti ai tavolini esterni, intenti a preparare i fogli con la scaletta dell’imminente esibizione. Nonostante il freddo intenso decidiamo di rimanere fuori per la nostra chiacchierata. Non c’è molto tempo, visto che dovranno essere sul palco di lì a pochi minuti, ma grazie alla lucidità e alle idee chiare del quartetto, riusciamo a ricavare materiale sufficiente.

 

Si tratta della prima intervista che fate per Loudd quindi ve lo chiedo più che altro per i nostri lettori che non lo sapessero (e comunque non lo so nemmeno io): il vostro nome da dove viene fuori? Scusatemi per la banalità della domanda…

Eugenia Fera: Figurati! Deriva da una cosa stupidissima, vale a dire che non riesco mai a svegliarmi presto, normalmente non sono mai in piedi prima di mezzogiorno. Di conseguenza la musica, e tutto ciò che faccio nella vita, viene fatto dopo quell’ora. Mi sono pentita molto di questo nome ma ormai ce l’abbiamo (risate NDA).

 

Il disco mi sembra un passo avanti enorme: la scrittura è notevolmente migliorata e anche le influenze sono molteplici, più variegate. Ho letto che in una prima fase questi pezzi sono stati composti a distanza, vi siete scambiati idee mentre vi trovavate in luoghi differenti. Paradossalmente credo che possa essere stato un fattore decisivo alla base di questa maggiore ricercatezza e varietà. Sbaglio?

Matteo Gherardi Vignolo: Più che comporlo a distanza, ognuno ha portato un’idea che poi abbiamo sviluppato insieme. Le composizioni sono sempre state qualcosa di condiviso, anche per quanto riguarda i contributi individuali degli strumenti: per dire, se la batteria non girava mi correggevano, se un determinato giro di chitarra non funzionava, lo dicevamo. È stato qualcosa che abbiamo fatto insieme, un approccio senza dubbio più collettivo rispetto al primo disco. Probabilmente è per questo che lo senti più vario: perché lavorando assieme c’è stato modo di far venire fuori tutte le nostre influenze, dato che proveniamo da background differenti…

 

Ovvero?

MGV: Io ho studiando tanto Jazz, mi piace molto la musica nera, la World Music… un po’ meno la musica più “tradizionale”, se vogliamo, a quest’ultima mi hanno avvicinato di più loro; però è sempre un processo reciproco: capiamo sempre, a seconda del contesto in cui siamo, se in un determinato brano possono funzionare certi elementi oppure no. Ci influenziamo sempre a vicenda.

Giovanni Marini: Io ascolto un po’ di tutto, poi è vero che c’è sempre stata questa separazione, Matteo batterista che ha avuto una formazione Jazz, Matteo bassista più orientato sulla musica elettronica, io invece un po’ più alla psichedelia, anche se è vero che poi le influenze sono tante; e in ogni caso, come ha già detto lui, riusciamo sempre ad influenzarci a vicenda.

EF: Non avendo avuto una formazione accademica il mio ascolto musicale è sempre stato vario, meno settoriale (senza nulla togliere al loro, che comunque è parecchio variegato!). Diciamo che non ho mai avuto un input “istituzionale”, ecco. Ascolto molta musica brasiliana, Rap, RNB, Soul, anche molto Pop e ho avuto tutta una fase in cui ascoltavo parecchio folk americano.

 

Il disco s’intitola Like I Need a Tension e lo avete presentato dando a questa tensione una connotazione positiva. Io questa tensione la sento molto anche nelle canzoni, nel senso che sembra che non trovino mai uno sbocco, che siano sempre in movimento, che attraversino diverse fasi l’una dietro l’altra. A mio parere, questo è uno degli aspetti che le rende così interessanti. Vi ritrovate?

GV: Direi di sì! Sono tutti dei bei viaggioni (risate NDA)!

Matteo Traverso: Ogni pezzo vuol dire qualcosa e ha tanti momenti al suo interno, che anche quando durano poco hanno un significato ben preciso, quindi si può certamente dire che ci sia tensione nei pezzi.

 

Se invece dovessi individuare un focus, lo troverei nel ritmo. È un disco che ha molto groove e direi che i riferimenti all’RNB e alla musica brasiliana che venivano fuori prima siano molto azzeccati. Questo è anche ciò che lo rende contemporaneo, perché le produzioni odierne sono molto più incentrate sul Beat che sulla melodia…

EF: C’è molto questa cosa, probabilmente compensata dal fatto che tante delle cose che facciamo dal punto di vista armonico e melodico le strutturiamo sulla voce, però poi in un certo senso le nostre influenze musicali si manifestano di più a partire dai groove, dai ritmi, per esempio dalle linee di basso.

MGV: Quando abbiamo fatto il primo disco, ti parlo almeno per me come batterista, il nostro produttore di allora, Matteo Pavesi, mi aveva fatto lavorare molto assieme alla parte vocale. L’idea è che la tua parte di batteria non debba per forza essere un loop ma che tu possa anche ascoltare quello che fa la voce e modellare delle variazioni su questo; il che poi si traduce nel poter fare una parte che sia più libera, anche se non predominante o sganciata dal resto. Credo che questa dinamica abbia giocato molto anche nei pezzi nuovi, quelli in cui le parti sono state pensate non solo come mero accompagnamento ma anche in funzione della voce, portando avanti anche tutto un tentativo di dialogo tra gli strumenti.

EF: E' un lavoro di colori, anche.

GM: Tra basso e batteria, chitarra e batteria, siamo tutti collegati da fili e poi non si capisce più niente perché è tutto un groviglio (risate NDA)!

 

Che poi è una cosa interessante perché nella musica cosiddetta “alternativa” si tende a concentrarsi solo sull’aspetto melodico mentre invece qui ci sono tanti elementi da tenere presenti tutti in una volta.

MGV: Non è certo una lotta contro l’approccio classico di fare canzoni, non vogliamo essere diversi a tutti i costi, è semplicemente che a noi piace così. Quando uno fa musica cerca sempre di realizzare qualcosa che vorrebbe ascoltare e noi cerchiamo di fare lo stesso.

MT: Che è stato poi un potenziamento di quello che Eugenia ha portato da sola. La prima volta che l’ho sentita cantare e suonare con la chitarra, la cosa che mi aveva colpito di più era che i giri di chitarra erano mozzati, limitati da ciò che richiedeva la narrazione. È limitante parlare di linea melodica, è proprio un discorso di narrazione. Tutto va dunque al servizio di quello che vuoi dire, per cui se ti ritrovi ad aver terminato e devi quindi chiudere la canzone un paio di giri prima, non ci sono problemi, si finisce lì. Questo è interessante perché la sfida è poi rendere il tutto musicale senza perdersi in inutili dilatazioni. Il risultato a volte può sembrare un po’ ballerino ma…

EF: E' un work in progress anche questo, siamo ancora contenti del disco che abbiamo fatto ma vorremmo continuare a lavorare, a dare dignità alle idee che abbiamo e riuscire ad incastrarle in un modo che faccia sentire sempre meno il fatto che siano incastrate, far percepire costantemente che c’è una fluidità. Quando mi dicono: “Voi fate musica Pop” sono veramente contenta perché comunque quando diciamo “Pop” noi intendiamo qualcosa che sia semplice ma non facile.

GM: E che possa arrivare a tutti, magari.

EF: Che riesca ad arrivare, ma non per forza debba essere interamente comprensibile. L’importante è che nell’insieme sia piacevole e ti faccia ballare.

 

In tutto questo il live può aiutare? Perché la mia impressione è che siate cambiati tantissimo rispetto alle prime volte. Ricordo per esempio un Mi Ami di qualche anno fa.

MB: Sì, all’epoca era uscito solo un singolo.

 

Ecco, avete parlato di work in progress e vi chiederei quindi come saranno dal vivo questi pezzi, perché credo che, per come sono strutturate, la situazione live sia proprio un ottimo momento per portarle da un’altra parte.

MGV: Saranno ovviamente diverse, perché in studio abbiamo fatto anche dei lavori di sovrapposizione per cui alcune cose solo noi quattro non potremo farle. Siamo però credo riusciti a trovare la soluzione giusta per non togliere ai brani quello che poteva renderli caratteristici.

EF: Ci sono molti overdub significativi: fiati, cori, tastiere, per cui essendo in quattro sul palco, non ci saranno…

 

Avrete qualche cosa in base?

GM: Alcune cose verranno fatte, a questo giro ognuno di noi suonerà anche la tastiera e poi cercheremo di barcamenarci. Quello che è stato difficile, ma credo che ci siamo riusciti, è stato non snaturare i brani: se alcuni avevano qualcosa di caratteristico in una parte particolare, anche senza riprodurla esattamente allo stesso modo, siamo lo stesso riusciti a tenere l’energia giusta. In ogni caso ce lo dirai tu stasera (risate NDA)!

 

Ho apprezzato molto che abbiate messo i fiati, normalmente mi piace quando un artista fa questo tipo di cose.

MGV: L’idea c’era già da un po’, credo che Eugenia avesse insistito per prima per averli. Poi quando ci siamo decisi abbiamo preso una sezione un po’ strana perché abbiamo messo una tromba, un corno, un trombone e un sassofono. Una combinazione che normalmente non si usa e ci sono dei motivi molto validi per non farlo. Però non volevamo qualcosa che fosse troppo riconoscibile, e quindi se le avessimo lasciate naturali sarebbero risultati un po’ scollati. Di conseguenza, abbiamo deciso di fare un po’ di manipolazione timbrica. Nulla di estremo, ma pur sempre un qualcosa che desse un colore in più e che non ci facesse semplicemente passare per quelli che sono bravi a fare gli arrangiamenti. La stessa cosa l’abbiamo poi portata avanti coi cori.

EF: Quello che mi sembra siamo riusciti ad ottenere è evitare l’associazione un po’ stereotipata del: “Ci sono i fiati? Quindi fate Jazz!”. Volevamo invece che ci fossero proprio dei suoni che cantano, che a volte non riconosci neanche. I suoni sono manipolati in modo tale che sia i cori sia i fiati non ti riconducano per forza di cose dentro un certo genere. Abbiamo voluto mantenere la nostra coerenza, insomma.

MGV: Questo ha anche riguardato come abbiamo deciso di scriverli, i fiati. Molto spesso nella musica Pop hai fiati che suonano tutti la stessa nota, per cui viene bene ma non aggiunge tanto. Abbiamo invece voluto armonizzare le parti (nulla di complicatissimo o di cervellotico, in realtà) per costruire qualcosa che si sviluppasse di più in verticale, e che quindi fosse meno ripetitivo.

 

Veniamo a questo punto interrotti da un collaboratore della band, che avvisa i ragazzi che dovranno essere sul palco nel giro di cinque minuti.

Il concerto che segue è bellissimo. Non vedevo gli Eugenia Post Meridiem da diversi anni (se non vado errato, da una serata al Magnolia in cui aprirono per Anna Calvi e Julia Jacklin) e rimango decisamente colpito da quanto siano migliorati. Si scaldano con una manciata di brani del vecchio repertorio, suonati peraltro con grande intensità e con grandi momenti di interazione strumentale, come accade ad esempio durante una meravigliosa “Mad Hatter”. Eugenia è a suo modo carismatica, con un atteggiamento spontaneo e solare, si rivolge al pubblico quasi con imbarazzo ma suona e canta con grande confidenza, ritmiche chitarristiche poco convenzionali, vocalità peculiare e fortemente espressiva. Grande prova anche di Matteo Gherardi Vignolo alla batteria, un drumming tutto sommato asciutto e non particolarmente elaborato, ma fondamentale nell’imprimere ai vari pezzi quel groove che li rende irresistibili nonostante siano tutt’altro che immediati.

Il nuovo disco viene suonato tutto o quasi e accade puntualmente quello che la band ci aveva anticipato: i brani sono leggermente diversi, l’accento è posto via via su altri elementi rispetto alla versione originale, ma funzionano tutti alla grande, esecuzioni di primissimo livello, con un lavoro davvero notevole dei vari strumenti. L’impressione è proprio che, pur non staccandosi troppo dalle versioni registrate, spingano di più sull’elemento improvvisazione, reiterando i finali e giocando, seppur per breve tempo, coi temi principali.

È un set da un’ora, inusuale per un’apertura, che ci permette di goderceli appieno e di ottenere una fotografia il più possibile fedele del punto in cui sono adesso. Finale con la vecchia “Blue Noon” e poi altre sue nuove gemme come “Tiny Perspectives” e “Whisper”.

Recuperateli se non lo avete ancora fatto, non ne abbiamo molti di gruppi così dalle nostre parti.

 

Photo Credits: Pietro Paolo Cesari