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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
27/12/2023
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Lowinsky
Siamo andati a trovare Carlo Pinchetti nello studio dove hanno registrato parte di "Triste sbaglio sempre lontani", il nuovo disco di Lowinsky, in uscita il 27 dicembre. Tra il Deserto dei Tartari di Buzzati, la ricerca della felicità, i segreti dietro all'album e molto altro, fino un brano in acustico suonato in esclusiva solo per noi, che potrete trovare in coda all'articolo.

Che Oggetti smarriti, il loro primo disco, abbia, per qualche oscura e indecifrabile ironia, coinciso con l’inizio della pandemia, è un fatto già più volte raccontato su queste colonne. Il 22 febbraio 2020 i Lowinsky lo presentavano a Bergamo, appena prima della chiusura totale dell’Italia. Sembrava tutto finito, con Carlo Pinchetti pronto ad archiviarlo per realizzare per la prima volta della musica a suo nome (Una meravigliosa bugia è uscito nell’aprile dell’anno successivo) ma poi le cose sono cambiate: dapprima la ristampa dei primi due EP, poi lo Split assieme ad Helsinki, progetto parallelo di Drew McConnell dei Babyshambles, di cui abbiamo parlato il mese scorso. Infine, atto decisivo di un percorso che speriamo possa andare avanti a lungo, la pubblicazione di un nuovo disco.

Triste sbaglio sempre lontani viene dal mash up di due sintagmi tratti da una delle pagine finali de Il deserto dei Tartari, il romanzo più conosciuto di Dino Buzzati, nonché vera e propria summa delle costanti letterarie dell’autore bellunese. Sono 24 minuti, per cui sarebbe forse giusto parlare di EP, ma in un’epoca in cui lavori anche più brevi vengono battezzati come album, direi che possiamo fare un’eccezione.

Nello specifico dei contenuti ci entreremo in sede di recensione. Nel frattempo sono andato a trovare Carlo Pinchetti nello studio dove hanno registrato parte di queste canzoni. Abbiamo fatto quattro chiacchiere, dopodiché mi ha suonato in acustico due brani del disco che, in spregio ad ogni logica da classifica di fine anno, è in uscita il 27 dicembre.

 

 

Cos’è successo di particolare, che ti ha fatto decidere di riformare i Lowinsky?

Dopo la pandemia avevo deciso di pensionare il nome, avevo fatto un disco solista e avevo anche decretato la morte del gruppo. Però poi è successo che mi è venuta la voglia di fare un disco “da band”, un po’ più corposo rispetto ad uno solo chitarra e voce. Mi sono detto che pubblicare un disco del genere a mio nome non mi avrebbe convinto del tutto, oltre che, tutto sommato, il nome Lowinsky era un nome carino, che mi sarebbe piaciuto tenere. E poi bisogna anche considerare che negli anni i Lowinsky hanno sempre avuto una line up aperta, non siamo mai stati il classico gruppo di persone che si conosce al liceo, forma una band e non si separa più. Per tutti questi motivi, i Lowinsky sono tornati, semplicemente con la formula: “Carlo Pinchetti e tutti gli amici che in quel determinato momento hanno voglia di suonare con lui”.

 

Un po’ come quando Mark E. Smith diceva: “Se ci siamo io e te, con tua nonna che suona i bonghi, sono comunque i Fall”.

Esatto (ride)! Ma come anche gli Shins, i Lemonheads… ci sono un sacco di gruppi che mi piacciono, che in passato hanno adottato questa formula.

 

Non dipende anche dal fatto che ti trovi meglio a scrivere per un gruppo piuttosto che per te stesso?

A livello di scrittura no. Sul dopo invece sì: proporsi al mondo con un progetto, fare concerti… c’è più serenità a farlo con un nome che non sia il tuo. Ha un fascino diverso fare uscire un disco come band, anche se sono sicuro che pubblicherò altre cose come Carlo Pinchetti, in futuro.

 

E perché Il deserto dei Tartari?

Come nella musica, anche nella letteratura sono molto esterofilo, ma Buzzati è in assoluto uno dei miei autori preferiti. Forse perché non scrive come un italiano: sai, io credo che agli italiani piacciano Battiato e quei romanzi che sembrano una canzone di Battiato, cioè storie piene di roba, con tanto contenuto. Però a me piacciono i Lemonheads: chitarre, belle melodie, e dei concetti espressi che possono anche essere profondi, ma che vengono detti con parole semplici. Poi non significa che uno sia meglio dell’altro, è quello che piace a me. Per cui in letteratura, Graham Greene, Bret Easton Ellis, ma anche Buzzati. Concetti molto profondi con una semplicità disarmante.

 

Come è sviluppato nel disco, il tema del romanzo?

Non come un classico concept album: non è la storia di Drogo che va alla fortezza, bensì la trasposizione in musica dei concetti che secondo me Buzzati voleva esprimere col suo romanzo. Vale a dire, l’impossibilità di avere veramente un’affinità tra gli esseri umani. Crediamo di conoscere le persone intorno a noi, gli amici, ma non arriviamo mai alla loro essenza, rimane sempre un distacco. Dall’altra parte, c’è la futilità di ricerca di un senso, sia della vita in generale sia della propria: costruirsi un futuro, un presente, per poi accorgersi che la vita è passata, è finita e niente ha avuto senso.

Se leggi la storia di Drogo e di come va a finire, c’è dentro questa roba qui. Io poi mi ci ritrovo in maniera incredibile: ho 41 anni e, senza essere troppo negativo, mi considero nella fase finale della vita. Ho fatto questo percorso e mi rendo conto della futilità di qualsiasi cosa: se a 16 anni pensavo di trovare il lavoro dei miei sogni, adesso penso che questo non succederà mai; ma va bene così, tutto sommato. Sono piuttosto negativo e disilluso ma anche molto sereno. Ho fatto questa strada che mi ha portato a fare questo ragionamento, leggendo Buzzati mi ci sono ritrovato e ho detto: “Tutto coincide”. E mi ha anche rasserenato vedere che uno come Buzzati pensasse queste stesse cose.

 

Beh, che si tengano presenti o meno i fini ultimi, alla fine quello che conta è vivere la propria quotidianità, costruire qualcosa lì dove sei.

Esatto. Sono felice quando sto coi miei figli, quando vedo un film con mia moglie, quando leggo un libro che mi piace o quando ho la fortuna di pubblicare una canzone che magari 10-20 persone ascolteranno.

 

Certo, anche se è comunque innegabile che uno scrittore come lui lasci un senso di amarezza. Dopotutto lo stesso inizio è veramente amaro: dovrebbe iniziare in maniera positiva, allegra, perché l’inizio di un lavoro, di un incarico, è sempre pieno di promesse; invece il narratore scrive che Drogo, quando si guarda allo specchio prima di partire, non sentiva quella letizia che si sarebbe immaginato. Da dove nasce l’idea di mettere l’incipit del romanzo letto da una voce che, in tutta sincerità, non sono riuscito ad identificare?

Si tratta di un giochino che mi hanno ispirato i Bright Eyes: sostanzialmente in ogni loro disco mettono qualcuno che racconta qualcosa o che legge qualcosa, sempre con una voce un po’ contraffatta. E allora mi sono detto che sarebbe stato bello fare qualcosa del genere. Per cui ho preso Geep Coltrane (grande amico di Pinchetti nonché lui stesso cantautore, i due hanno anche realizzato insieme lo Split, NDA) e l’ho messo a leggere,  rallentandogli la voce e distorcendola con vari effetti. Sulla parte da mettere ci ho pensato un po’, avrei potuto inserire quel piccolo brano da cui ho ricavato il titolo del disco, però poi mi sono detto che (oltre che così non ci sarebbe stato il rischio di spoilerare nulla a chi non l’avesse ancora letto) nelle prime righe del romanzo c’era già dentro tutto.

 

Nel primo brano “Grande niente e una giostra che non va via”, c’è un richiamo abbastanza esplicito ad Elliott Smith.

Dici che è Elliott Smith? Sono d’accordo con te! Quella canzone lì è nata con una demo che doveva essere proprio un tributo a lui. Era nata chitarra e voce poi in studio l’abbiamo arrangiata in maniera diversa. Però sì, è lui: “Ballad of Big Nothing” è probabilmente il mio pezzo preferito suo, l’ho anche suonata un po’ di volte dal vivo negli anni passati. Che poi alla fine le tematiche di cui tratta sono le stesse di Buzzati, non è che ci allontaniamo molto.

 

Anche la scrittura è tipica tua: questa e “Nessuno si ricorderà di noi” sono forse quelle dove si vede di più la tua impronta, sempre con un anelito malinconico anche se ad un certo punto dici: “Io non voglio morire solo”. Da una parte si pensa di doversi arrender di fronte all’impossibilità di uno scopo, però dall’altra…

Sì, non puoi rinunciare a cercare la felicità, devi solo essere sereno sul fatto che quella assoluta non l’avrai mai al 100%, non c’è niente da fare. Non si può però fare a meno di cercarla, anche se spesso si tratta solo di pochi minuti a giornata.

 

“Doppio gioco” invece l’hai pubblicata qualche mese fa come parte di uno Split con Helsinki.

L’idea di una collaborazione con Drew (McConnell, bassista dei Babyshambles, NDA) era in ballo da tempo, anche se finora non si erano ancora allineati tutti i pianeti in modo che potesse funzionare; anche adesso non è stato poi così facile portarlo al termine, ho dovuto fare i salti mortali. “Doppio gioco” però esisteva già, avrebbe dovuto far parte del nuovo disco, per cui quando l’idea dello Split si è effettivamente concretizzata abbiamo deciso di usare quella.

 

Secondo me è uno dei tuoi pezzi più forti, più intensi.

La allineo alle altre, sinceramente, anche se è quella che è nata più di getto: stavo cazzeggiando con una chitarra classica e mi è venuta fuori quella sequenza di accordi che si sono costruiti nel giro di mezz’ora nella forma della canzone che puoi sentire adesso.

 

Una botta di ispirazione, insomma.

Una botta di ispirazione, sì; molto guidata da “Double Joe” di Simon Joyner, in particolare nella versione dei Better Oblivion Community Center (il progetto di Conor Oberst dei Bright Eyes e Phoebe Bridgers, autori di un disco nel 2019, NDA): non a caso, un elemento importante del pezzo è la voce di Linda.

 

È per quello che nella prima strofa canta da sola?

Lì devo dire che è stata una scelta azzeccata di Claudio Turco (Soviet Malpensa, NDA), che ha mixato i pezzi e ci ha anche suonato sopra parecchie cose. La canzone originariamente era cantata da entrambi dall’inizio alla fine, io gli ho detto di sentirsi libero di gestire le voci così come gli sembrava meglio. Lui ha avuto questa idea di far partire Linda da sola, abbiamo visto che funzionava alla grande e l’abbiamo tenuta. Lei qui ha una voce davvero magnifica.

 

Che poi tu ti sei trovato sempre molto bene con le seconde voci, no? Sin dai tempi dei Finistère.

Sì certo! Infatti ogni tanto dal vivo scherzo dicendo che mi serviva una voce femminile per poter continuare a suonare i pezzi dei Finistère (risate, NDA)! Mi è sempre piaciuta questa cosa di cantare a due, trovo che dia più forza alle canzoni; oltre al fatto che io ho un registro basso e trovo che sia meglio andare a riempire un po’ verso l’alto.

 

“Bottom of the Barrel” è un po’ un piccolo grande classico, suona anche in maniera diversa rispetto alle altre, ci sono più chitarre, è più Indie Rock alla vecchia maniera.

Quella ha una storia molto affascinante. Innanzitutto perché è l’unica che non abbiamo registrato nei nostri studioli ma che abbiamo fatto tutta al Real Sound a Milano, con Ettore Gilardoni, dicendogli: vogliamo un pezzo con questo suono qui. In origine l’avevo scritta come un brano à la Tom Petty, quindi molto classica, anche se con delle chitarre più Punk Rock, più Lemonheads. Ed era stata pensata per una reunion dei Daisy Chains (il primo gruppo di Pinchetti, NDA) che non c’è mai stata, e questo è il motivo per cui è stata scritta in inglese. Il testo, se ci fai caso, parla proprio di noi che ci riuniamo e facciamo uscire un singolo.

 

Sì, l’avevo notato però pensavo si riferisse più alla tua carriera in generale.

Quello senz’altro, però nello specifico l’occasione sono i Daisy Chains. Il punto è: “Ho una band, non frega un cazzo a nessuno e quindi ecco un’altra canzone!” (ride, NDA).

 

Questa dunque è quella più vecchia tra quelle del disco.

Sì, è nata prima della pandemia.

 

E l’hai tenuta nel cassetto tutto questo tempo?

Sì, perché coi Daisy Chains siamo riuniti, abbiamo fatto le prove, dovevamo pubblicare un disco in cui avevamo recuperato un sacco di schifezze: demo, brani live, ecc. Tutta roba dalla qualità decisamente bassa ma a noi non fregava nulla, volevamo comunque farla uscire (risate, NDA). E dentro ci sarebbe dovuto essere anche un singolo nuovo, che poi era “Bottom of the Barrel”, composta per l’occasione. Avevamo già fatto la copertina, la canzone era pronta, poi però abbiamo avuto dei problemi, non siamo più andati d’accordo e di conseguenza il progetto è stato abortito. Però il pezzo era bello, sarebbe stato un peccato buttarlo. A quel punto c’era chi diceva: “Falla in italiano!” ma, al di là del fatto che credo sia uno dei testi in inglese più belli che abbia mai scritto, in italiano non suonerebbe allo stesso modo.

 

Sono d’accordo.

Il concetto è molto semplice, ed è poi quello del ritornello: “Non me ne frega niente se devo raschiare il fondo del barile, anche perché non ho neanche un barile!” È l’unica filosofia possibile, soprattutto in Italia, per andare avanti con la musica, altrimenti si rischia di essere dei frustrati a vita! E poi sai, a livello lavorativo sono dovuto anche scendere a patti, ho fatto anche lavori che non mi piacevano, se avevo bisogno di portare a casa soldi; con la musica no, è un ambito dove non sono mai sceso a compromessi: avendo la fortuna o la sfortuna di non farlo come lavoro, è una cosa che mi posso permettere.

 

È bellissima anche la versione semi acustica che avete messo come bonus track: paradossalmente la trovo più in linea col contenuto del disco.

Quella è stata una chicca tirata fuori da Claudio. Gli ho detto: “Ma secondo te, se teniamo solo la chitarra acustica e la batteria togliendo tutto il resto, verrebbe fuori una schifezza?”. Lui ci ha provato ed è saltato fuori dal nulla con questo pezzo bellissimo dove ha messo sopra una chitarra slide (con qualche rimando a “Torn” di Natalie Imbruglia, che è stata una trovata davvero geniale) e un pianoforte. È una roba veramente bella, adesso vedremo come utilizzarla. Alla fine non è molto diverso da quello che ha fatto con le altre canzoni: io gliele ho passate con su la voce, la chitarra e il violoncello, Synth e batterie li ha aggiunti lui.

 

Come ultimo brano avete inserito “Harakiri”, che altro non è che la versione naked di “Seppuku”, che compariva su Oggetti smarriti. La trovo bellissima, decisamente meglio dell’originale; però, mi chiedo, perché non mettere un altro pezzo nuovo? Dopotutto il disco è già corto di suo.

Avevo già deciso che questa versione avrei voluto registrarla, ancora prima di sapere come sarebbe stato il disco. Sinceramente avevo anche pensato di aggiungere altre canzoni ma mi sembrava andasse bene così: un disco corto o un EP lungo, a seconda di come uno lo voglia considerare. E poi essendoci dietro questo concept non mi sembrava potesse andarci sopra altro. In ogni caso non mi dispiacciono i dischi corti, ho fatto molti EP in passato: il piccolo pacchetto molto curato mi ha sempre attirato parecchio. Poi tieni conto che questa canzone è completamente diversa dalla versione originale, che non mi aveva per niente soddisfatto, non mi dava quelle emozioni che invece adesso mi dà questa.

 

Funziona soprattutto questo contrabbasso suonato con l’archetto.

Lo suona un mio amico, Roberto Frassini Moneta. Lo conosco da diversi anni, suona con un sacco di progetti diversi e fa di tutto, dal Jazz all’Indie; è un musicista incredibile anche per questa sua apertura mentale assoluta. I pezzi li aveva sentiti 2-3 volte ma non è che li avesse studiati, è venuto in studio da noi e gli abbiamo detto: “Fai un po’ quello che vuoi”. Ha suonato su questo e su “Grande niente” facendo in pratica delle improvvisazioni, che poi noi abbiamo montato nella versione definitiva. E poi rende tantissimo la chitarra che ho usato: l’ho comprata per 100 euro su Reverb da una scuola di musica tedesca, poi ho scoperto che risale agli anni '70 ed è fatta con dei legni di compensato, roba di bassa lega ma fabbricata da un liutaio. Unendo manifattura incredibile a materiali pessimi è venuto fuori un suono marcio che è la cosa che poi caratterizza maggiormente il pezzo.

 

Una curiosità: c’è qualche differenza tra “Seppuku” e “Harakiri”?

Per quel che ne so nessuna: “Harakiri” è un termine più conosciuto in Occidente rispetto a “Seppuku”, poi sicuramente ci saranno delle sfumature di significato che io non conosco. Ho comunque voluto divertirmi col sinonimo anche per vedere se ci saranno almeno due persone che si accorgeranno che si tratta dello stesso pezzo, oltre a quelli che ci hanno suonato sopra (risate, NDA)

 

La domanda è d’obbligo: possiamo sperare di avere una formazione stabile almeno per qualche tempo?

Relativamente, perché il batterista l’abbiamo cambiato un mese fa. Gian (Gianluca Vulpio, che è anche parte di Moquette Records, che pubblicherà il disco assieme a Gasterecords, NDA) purtroppo non c’è più, del resto già sul disco aveva suonato solo su “Bottom of the Barrel”.

 

Come mai?

Suona in un sacco di altre band e non riusciva più a starci dietro. Mi spiace perché al di là del fatto che è un bravo batterista, è anche un amico, mi piaceva averlo nella band. Però abbiamo avuto la fortuna di trovare Giuseppe Ruocco, che oltre ad essere un bravo batterista è anche una persona eccezionale. Poi ha tanta voglia di suonare, è molto entusiasta e questo non può che fare bene a tutti. Per il momento andiamo avanti noi cinque, poi sai, coi Lowinsky non si sa mai.

 

 

Triste sbaglio sempre lontani verrà presentato dal vivo il 29 dicembre all’Ink di Bergamo. In apertura Jim Mannez (già Madre degli Orfani) che a febbraio ha pubblicato il suo ottimo esordio da solista.