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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
17/04/2024
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Paolo Saporiti
Nel gioco delle parti la verità non ha maschere. Non è nel modo la vera ragione che spiega, non è nella forma il mezzo che alla fine ci salva, la verità è oltre tutto questo. Di questo e di molto altro si nutre il dialogo con Paolo Saporiti, in occasione del suo nuovo lavoro "La mia falsa identità", prendetevi del tempo per gustarlo a fondo.

“Il contenuto è pur sempre riconoscibile ma di sicuro non riconducibile all’idea di semplicità. Piuttosto vige e domina il concetto di gestione della complessità e della molteplicità. La difesa che dobbiamo riservare alle cose importanti e vere e che ci rimangono in dotazione è nodale. Il rito, la sacralità, il processo, la verità, la bellezza, la ricerca della saggezza gli strumenti che abbiamo”. (Paolo Saporiti)

 

Sedetevi. Dedicate tempo a ricercare voi stessi dentro le lunghe risposte che mi ha regalato Paolo Saporiti. Un uomo, un artista, quello che penso di sentire “accanto” più di un amico di vita. E forse sarà solo questo 20 di Aprile che potrò incontrarlo per la prima volta dal vivo, ad un suo concerto qui a Pescara per mano dell’amico Paride Galasso e della sua Jackal's House Concert. Sfoglio la vita e il concetto di dualismo dentro questo disco che si rende eterno ed infinito. Eterno perché non ha tempo la lotta che l’io ingaggi ogni giorno con la propria dimensione materica. L’ego impera e ha tutti i suoni possibili, come questo disco. Infinito, perché la fine è una condizione, una forma, un fermo posta, e questo disco ogni volta mi ricorda che la vita sta nel viaggio e non nell’arrivo. Non termina, guai lo facesse.

“La mia falsa identità” fa questo in ogni momento: mescola la ragione e la forma, spiegandomi che in fondo non importa l’una e non ha importanza l’altra. A tracciare una linea si finisce per dare una risposta e una risposta determina una condizione. Le maschere hanno condizioni, sono condizionamenti. La verità prescinde da tutto questo. Dopo l’ennesimo ascolto, riporto a casa la consapevolezza che devo saper lasciare andare. Controllare la vita, un amore, una persona, il passato denso di errori, è una condizione, è una maschera, è una risposta, è la scusa buona per dare alla mia faccia una giustificazione salvifica. Ma non mi salva. Credo di fare del bene anche per me ma non mi sto salvando per davvero.

Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che anche le canzoni sono delineate da forme e da regole, dunque sono condizioni. Verissimo. Perché le canzoni sono maschere, sono finzioni, sono illusioni. Insomma caro Paolo, penso di aver capito: non è nel modo la vera ragione che spiega, non è nella forma il mezzo che alla fine ci salva. La verità è oltre tutto questo.

Paolo Saporiti mi ha regalato qualcosa che merita di essere difeso. E poi, nelle liriche come nelle risposte, ho percepito una potenza umana che vieta alla menzogna di avere modi regali.

Sedetevi e leggete questa intervista senza rumore accanto.

Ed è così, caro Paolo, che sto credendo davvero di fare del bene anche per me.

 

 

Ho diverse impressioni per questo disco, la prima è metamorfosi interiore, come se tutte queste nuove canzoni nella buccia esteriore si somigliassero ma dentro, nel cuore, fossero totalmente distanti, come se la faccia restasse quella ma nel cuore fosse accaduto qualcosa. Sbaglio?

Beh direi proprio di sì. Sono cresciuto e cambiato, e ho cercato di raccontarlo agli altri. La pandemia ha distrutto e lasciato molte ferite aperte, ma il processo era già in essere. Tutto si è oscurato e poi disvelato di colpo, col definirsi del titolo del disco, ad esempio, nel mio caso. E in modo naturale il processo è andato avanti consolidandosi con la stesura di ogni singola traccia, venti per la precisione (tre anni e mezzo di lavoro, quasi quattro), ognuna di esse interpreta e rilegge lo stesso sentire, ma lo svolge in maniera differente e peculiare. Il contenuto è pur sempre riconoscibile ma di sicuro non riconducibile all’idea di semplicità, piuttosto vige e domina il concetto di gestione della complessità e della molteplicità.

Se fossi stato qualche anno più indietro allora, rispetto a dove mi sento ora, mi sarei voltato e avrei usato tutte quelle voci a disposizione, nel timbro e nei modi, nei colori, negli atteggiamenti e negli arrangiamenti stessi e la cosa forse sarebbe stata ancora più evidente. Ma avrei comunque dovuto indossare delle maschere e la cosa avrebbe perso di peso. Così ho cercato e cerco per sempre la costanza, nella profondità del mare, e la conquista dell’autorevolezza, dettata dalla proiezione della mia visione originale. Che poi è soltanto un’ipotesi. E così non rincorro più i personaggi per definizione (intesi nel comune modo di vedere la cosa), ma forse questo non l’ho neanche mai fatto, con le loro banali e posticce posture, ma lascio parlare la metamorfosi naturale e spontanea delle mie varie identità, cercando di preservare la spontaneità.

Verrebbe da dire, ma così giochi col fuoco: liberando tante “false” identità (nel senso che non ti puoi mai fermare a una, previo la morte), che risultano vere perché immerse in un unico e liquido flusso di cambiamento, rischi di non essere mai tu. Come il corso del fiume che, nonostante i cambiamenti climatici, trova il modo per adattarsi, fino alla scomparsa. Qualcuno, qualche giorno fa, ha citato Kafka per questo lavoro, e il suo protagonista Gregor Samsa (de La metamorfosi) per il video di “Vince lei” e la cosa mi ha riempito di orgoglio e imbarazzo, oltre a incoraggiare verso la lettura di un aspetto della situazione che sto considerando a pieno per la prima volta.

Una delle cose più belle della vita è sentirsi riconosciuti e capiti e questo sta succedendo. Lo prendo come il miglior sintomo di un lavoro ben riuscito e del mio successo personale, che mi posso portare dietro fino alla fine dei miei giorni. Il mio mondo interiore, il mondo interiore di tutti, è prezioso. Questo va capito e rinforzato. È un pozzo di ricchezza spesso maltrattato e ignorato da questa società un po’ troppo superficiale e tendenzialmente incapace di gestire la relazione, che ha preferito ridursi al lumicino della coscienza piuttosto che combattere e resistere, forte dell’esperienza millenaria del nostro essere esseri umani. Economia, finanza e tecnologia/tecnica ormai dominano incontrastate su ogni cosa e questo è quanto.

 

Altra parola: convinzione. Trovo che la bandiera di tutto questo disco sia per me “Un sogno ancora da inventare”. La convinzione del bene che ci stiamo facendo se vuoi è essa stessa la vera “identità” che abbiamo?

La difesa che dobbiamo riservare alle cose importanti e vere e che ci rimangono in dotazione è nodale. Il rito, la sacralità, il processo, la verità, la bellezza, la ricerca della saggezza gli strumenti che abbiamo. E a questo punto mi abbandono a una confessione: il brano di cui parliamo nasce da un film, The Dreamers di Bertolucci.

Avevo dentro tutte queste immagini nella testa (le proteste per le strade della città, le bandiere rosse bianche e blu, i tricolori, i balconi, la rivoluzione) e la redenzione della mia anima. L’amore per mio fratello, i sogni. Ho messo dentro un pizzico di tutto questo in una sola canzone. E non per nulla ho immaginato di iniziare con un estratto di un monologo distorto (tutta la fase iniziale del brano non è altro che L’ultimo nastro di Krapp di Beckett rubato in rete e recitato in lingua originale) e di finire con la voce mirabile di Mario Arcari e del suo oboe d’amore, che soltanto a farne il nome è già tutta una poesia. Questa canzone è un manifesto romantico, trovo. Anche e soltanto per l’utilizzo di questi elementi. Quello che abbiamo voluto mettere a terra è il nostro amore per la vita e la musica, nonostante tutto e tutti. Rinnegare il passato non è possibile: bisogna continuare a sognarlo e a celebrarlo, con amore e dedizione, perché se siamo così è anche grazie a lui e a tutti quelli che hanno lavorato e fatto per noi, prima di noi.

 

Resto su questo brano se posso, con una domanda forse troppo invadente. Quanto “danno” in quel che sei o siamo oggi lo si deve alla figura dei genitori?

Tutto o quasi tutto. Nel bene e nel male. Arriva un momento in cui la vita (o l’analisi personale) ci porta alla risoluzione dell’idealizzazione e al perdono. La maturità, la comprensione, l’accettazione dei nostri e altrui limiti e difetti. Così si giunge a una presa di coscienza e alla responsabilità. Questa è la nostra vita e noi ne siamo gli attori principali. Poi vengono gli altri e la consapevolezza che tutto e tutti, o quasi tutti, proviamo a dare sempre il meglio di noi stessi. Certo, c’è chi ha più o meno talento e cose da dire, e chi fa finta di niente e non ci lavora su, perde tempo e opportunità e si lascia vivere. Ma se vedi e riesci a riconoscere la sincerità di quello che siamo, hai già superato il livello minimo e allora val proprio la pena di perdonare e di provare a integrare tutto quanto di buono e di negativo ci sia stato offerto dalle generazioni precedenti.

C’è chi ha paura o teme di dire cose del genere ma non capisce ancora quanto sia vittima di se stessa e di quel meccanismo che ci costringe in un angolo, a non vedere e a non sentire, rimuovere e manipolare, piuttosto che affrontare l’ignoto. Qui risiede il fulcro di tutto. Ci sono persone che neanche ammettono di essere figlie del proprio tempo, passato e contesto, del DNA, come se fosse tutto un caso o frutto di una coincidenza gratuita, la vita. In realtà noi siamo un’evidenza: l’evidenza del ricordo e del caso di tutto quello che c’è stato e che potremmo ancora essere e raggiungere un domani, vibrazione infinita che ha soltanto bisogno di un contenitore, finché siamo sula terra (la pelle e i concetti, le idee) ma anche qui: più riusciamo a lasciare laschi e permeabili questi confini, più rimaniamo aderenti alla verità e alla felicità assoluta.

 

Apri il secondo capitolo di questo lungo viaggio con un brano il cui centro è un figlio, forse tuo figlio. "Degno di metterti al mondo finché la vita non abbia un senso per me". Diventi genitore o torni figlio in questa canzone? In generale, la vita nel suo senso, è un tornare alle origini o un emanciparle?

Cerco di ricoprire entrambi i ruoli ed è, come dicevo prima: tutta una questione di responsabilità. Questa cosa vale per la paternità, che va assunta, seppur surrogata, come per tutto il resto. L’esistenza é una questione di responsabilità, tutto sta a volerlo capire e accettare. In uno dei nuovi brani su cui sto lavorando canto qualcosa di simile a: “Torneremo piccoli così…”. Alla fine, tornare a essere quello che siamo stati, i bambini che eravamo e che possiamo essere ancora, è uno dei parametri del successo della nostra permanenza sulla terra, della mia vita. Entrambe le cose dunque.

Non sono padre ma lo sono diventato, per la seconda volta di fila. Oggettivamente parlando. E sono stato figlio, allo stesso tempo, almeno altre due volte. Ma non è di sicuro finita qui. Contribuisco all’evoluzione di un secondo figlio, non mio, e mi identifico con lui, perché sono stato e sono figlio e padre di me stesso e dei miei genitori. Quindi il gioco è un continuo e duplice gioco di ribaltamento della realtà che permea ogni canzone del disco. Nulla è univoco se non la nostra molteplicità, che è appunto in evoluzione costante. L’importante è sapere di non essere mai Dio, ma tendere a conoscere quello che di lui c’è rimasto e rimane tra di noi, per chi crede, con rispetto e devozione, sacralità. Ma anche per chi non crede. Ed è così che oggi prendo per mano mio figlio, che poi sono me stesso, in senso figurato, e che non sono io allo stesso tempo, se non l’altro che è in me.

L’altro: questa parolina dimenticata e spesso ghettizzata. Rimossa. L’essere umano ha una capacità mimetica e poetica, trascendente e simbolizzante, e questo a me interessa, alla fine: simbolizzare e trascendere, in compagnia di qualcun altro, se possibile. Creare metafore del possibile insieme, non esserne vittima. Lo “sfratto” per come l’ho conosciuto a Pitigliano è un atto creativo più unico che raro e che scaturisce dal reiterarsi della tragedia di un popolo, trasformata in un dolce. Incredibile metafora dell’Arte e della vita dal mio punto di vista.

 

Citandoti: "torna sempre questa triste verità. Compagni liberate la mia falsa identità". Quanto mondo è racchiuso dentro queste due frasi? Partiamo dalla prima: mi mostri la semplicità chiamandola “triste”, la verità che torna, come a dire che cerchiamo sempre un mondo di strutture pensanti piuttosto che guardare il cuore delle cose, e la vita è una cosa semplice. È triste in fondo che sia così?

L’eterno ritorno. È triste sapere e pensare ancora di doverla abbandonare un giorno, ma ci arriverò, anche a questo. La vita è un continuo apprendistato. Io so che sarò un flusso di energia magari, di calore e di colore, un alito di vento, un suono o una vibrazione, un’onda e in questo risiederà la mia pace e la mia gioia infinita, ma il pensiero, a oggi, di non essere più questo essere umano, che può scambiare ed emozionarsi e vivere con i suoi amici e con le persone che stima e che ama o che deve soltanto ancora imparare a conoscere, mi spaventa e opprime. Il gioco della vita già mi manca. La verità è che è triste quando mentiamo a noi stessi e quando ci accontentiamo di quella imposta dagli altri, senza andare a fondo alla nostra.

 

E poi la seconda frase: se la falsa identità è una maschera, che tipo di libertà vuoi che abbia? Sembra un controsenso assai potente.

Essere se stessa. L’identità ha la libertà e il dovere di essere se stessa: di vestire le maschere e di svestirle, che è già una conquista e che rende tutto degno di essere vissuto. Sembra un controsenso, certo, vale per tutto questo disco(rso) come la vita, che sembra tutta un controsenso: capire che il senso di tutto é non avere senso, ma esserlo (nel senso di non averne o vestirne uno, e uno soltanto, ma di aderire alla propria molteplicità ed essere) non è un controsenso anche questo forse? Forse. E io qui sto soltanto giocando, recitando, suonando, cercando la molteplicità nello sguardo degli altri e nel mio. Ma sono una molteplicità. E questo è sacrosanto.

 

A proposito di questo brano, posso dirti che il mio personale rimando è a “Mojo Pin”? E forse Jeff Buckley non è un artista assai lontano da te, o sbaglio?

“Mojo pin” è stato uno dei miei brani iniziatici, la via d’accesso preferenziale al mondo di Jeff Buckley. Il Live at Sin-é poi, è stato il modo in cui l’ho conosciuto davvero e come lo ha conosciuto mezzo mondo, per come il mercato ha deciso che dovesse accadere. E quindi tutto quello che faccio è permeato da lui e dai brani contenuti in quel disco. Poi è venuto “Grace”, ma Jeff è comparso e appare, in maniera manifesta, anche in “Sai nuotare benissimo”. Il suo fantasma e il suo spirito aleggiano su quelle acque ‘malefiche’ in cui è affogato e forse si è anche lasciato andare. E io continuo a rivedermelo lì con gli stivali pieni d’acqua nel Mississippi e i jeans rigonfi che entra e si scioglie nella corrente, senza maglietta, dimentico di sé e dell’amico che lo aspetta sulla riva. Abbandonato, come potrebbe succedere in “Suzanne”. Il fiume continua a scorrere ("The river") e diventa lago, mare, inconscio. Tutto questo permea “La mia falsa identità”. Il mood e il portamento del brano. La paura dell’abbandono e del dover lasciar andare un amico ammalato di Covid. La compagnia e la condivisione, la fratellanza. L’empatia. Quella stessa libertà e grazia, contenute in ogni cosa che faceva Jeff col suo gruppo di amici, nutre questo disco.

Per questo sono rimasto molto offeso dalla pochezza di quello che ho conosciuto con i musicisti a quel tempo, tanto da dover abbandonare quel sogno di condivisione e non volerlo mai più. Non riconoscere il valore di quello che stava succedendo ed essersi voluti fermare alla pochezza delle cose e ai problemi di soldi, ancora una volta, e alle piccole beghe umane, mi ha turbato e offeso nel profondo, e non so se concederò più ad altri tutto quello spazio. La selezione sarà quantomeno radicale, giocoforza. “Conosci te stesso” stava scritto sull’entrata del tempio. Non altro. Qui si gioca davvero, non c’è più spazio per chi dissimula o mente o nasconde la verità. Vedi “Il bacio di Giuda”, una canzone sul tradimento.

 

Parliamo di distorsioni: questo disco ne ha pochissime ma tutte sembrano avere una pasta assai simile, sbaglio? La sento compatta, compressa, molto inglese.

Sì, ed è esattamente quello che abbiamo cercato io e Raffaele Abbate (co-produttore e co-arrangiatore nonché patron della OrangeHomeRecords) nella costruzione del suono. Stratificando sintetizzatori e timbri che potessero graffiare e urticare, ma partendo dai bassifondi e rimanendo lì ben ancorati, consolidando la pancia di tutti i brani, senza invadere o esporsi troppo. Portando alla luce il resto piuttosto che affossarlo. Ed è tutto così saturo e pieno di materia questo disco che emergono dettagli nuovi a ogni ascolto, anche per me.

 

Prima uno “sfratto” e poi una “zattera” per tornare al mondo, verso il mondo. Forse per questo chiudi con una richiesta di “liberazione”.

Sono tutti concetti e stimoli dal significato articolato e molteplice. In ogni elemento vige, come minimo, la duplicità. Anche se punto sempre e comunque al ‘più di così’. La zattera della Medusa di Géricaux contiene in sé la fine e l’inizio del mondo (dell’uomo) come in Oppenheimer. La convinzione di un’umanità che si spinge e si è spinta fino al suicidio, al cannibalismo e all’omicidio, nel nome della propria sopravvivenza e della speranza, della creatività e del sogno. Eppure lassù, racchiusa in un angolo di luce, contenuta in uno squarcio di cielo, risiede ancora l’ipotesi di salvezza. L’importante è rendersene conto, inseguirla e conquistare la libertà di essere. Poi il resto viene e farà da sé. Il treno della morale e dell’etica è perso, va recuperato quello del sentire, dell’ascolto e del rispetto comune, questo è inevitabile.

 

In chiusa: questo disco ha anche una confezione speciale che io non ho, non avevo capito ci fosse, vorrei me la raccontassi.

Il packaging è bellissimo e ne vado fiero: cinquanta pagine di booklet e lavoro grafico, composto da testi originali vergati di mio pugno, variazioni e riscritture fatte a macchina, correzioni di errori e interpretazioni differenti e libere di Alessandro Adelio Rossi di tutti i miei mondi e delle immagini contenute nel disco.

Chiunque lavori con me e chi mi ascolta deve accettare di prendere parte a un gioco, un coinvolgimento personale. Chi vuole farmelo pesare puntando il dito sul fatto che non conoscendo la musica non porto con me spartiti alle prove, sbaglia e viene depennato; chi vuole condividere un’esperienza, suona e crea, e contribuisce col “suo” alla costruzione di un mondo, vive e regna con me. Quando e se il gioco si riduce al fattore economico, o al gioco di potere, per me tutto svanisce e si spegne in una definizione. E così ora hai per le mani anche il perché io ora viva per suonare da solo o al massimo con una sola musicista di cui mi fido e a cui mi affido per ora e che porto sempre con me, con immensa felicità e su un palmo di mano. Quello che metto in gioco è tanto, se non tutto, e chi osa sputare sul mio piatto, ne fraintende le pietanze, verrà trattato di conseguenza, per il mercante o lavorante mercenario che è o che è stato.

Essere un musicista è più di un lavoro. E’ una benedizione e un onore e la bilancia delle cose ognuno la regge e la legge per come lo aggrada, se ne ha la forza e il talento, perché il resto lo fanno soltanto il tempo e l’invisibile.