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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
20/04/2022
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Tin Woodman
I Tin Woodman sono una delle tante prove dell’esistenza, nel nostro paese, di un sottobosco straordinariamente vivo di band che propongono semplicemente la loro musica, fregandosene dei trend imperanti.

I Tin Woodman sono una delle tante prove dell’esistenza, nel nostro paese, di un sottobosco straordinariamente vivo di band che propongono semplicemente la loro musica, fregandosene dei trend imperanti. Attivo dal 2017, il duo bresciano ha saputo partire dalla psichedelia di stampo Sixties e mescolarla liberamente con influenze che vanno dal Glam Rock del primo Bowie alle suggestioni dell’Hip Hop americano di vecchia scuola, il tutto infarcito di una sana attitudine rock and roll, un atteggiamento scanzonato alla scrittura dei brani, che va di pari passo con una cura maniacale dei dettagli, soprattutto dal punto di vista sonoro.

Songs For Eternal Lovers è uscito a gennaio, è il loro secondo album (senza contare l’EP d’esordio Metal Sexual Toy Boy ed è decisamente più vario e maturo del precedente, un caleidoscopio di influenze al servizio di pezzi accattivanti che, se fossimo in Inghilterra (perdonate la banalità ma è inutile nascondersi dietro a un dito) godrebbero probabilmente di un ben altro destino. Mi sono perso il release party a Germi, il locale di Milano di proprietà di Manuel Agnelli, per cui li recupero al Bloom, perduto nella nebbia brianzola ma pezzo importante della storia della musica dal vivo della storia Penisola.

Quando arrivo sul posto Simone Ferrari (Simon Diamond) e Davide Chiari (Dave The Wave) hanno appena finito di cenare, lo show è in programma ad ora decisamente tarda (l’unica cosa che sinceramente non mi è mai mancata di questi due anni di chiusure e una brutta abitudine che vedo sta ricominciando) ed hanno dunque tutto il tempo per concedersi alle domande del sottoscritto.

 

 

Partiamo dal dato che maggiormente vi caratterizza: Tin Woodman non è solamente il vostro nome ma è anche a tutti gli effetti il terzo componente del gruppo…

S: L’idea iniziale, me la propose Davide ad inizio progetto, era quella di scrivere assieme e di lavorare con un registratore a nastro. All’inizio vedevamo la cosa come un po’ limitante, in fase di registrazione abbiamo invece avuto questa epifania di mettere il registratore all’interno di un robot. Ci siamo confrontati con uno scenografo e, nel tour successivo, con un ingegnere elettronico che ci ha aiutato nel farlo muovere. Siamo così divenuti non tanto la band con un robot ma addirittura la band di un robot. Giravamo per i festival in Italia, lasciando in sottofondo la scritta “Who Is Tin Woodman?” e la possibilità di cercare su Facebook e su Instagram l’immagine. Questo ha incuriosito la gente, poi dalla band di un robot dal secondo disco siamo diventati la band con un robot. A quel punto ci siamo incuriositi e abbiamo voluto capire se qualcun altro avesse avuto la stessa idea. Abbiamo fatto un po’ di ricerche in rete e abbiamo scoperto che esistono band di robot che eseguono cover, persone vestite da robot ma mai una band con un vero robot. A quanto pare siamo gli unici al mondo, non troviamo nessun altro che abbia avuto questa idea, se c’è qualcun altro in giro ce lo dica che facciamo un festival insieme!

 

Fammi capire meglio questa cosa del robot come membro effettivo…

S: La nostra idea era quella di umanizzare Tin Woodman il più possibile: il robot suona realmente con noi, non abbiamo click, lui ha degli start, è lui che decide quando si inizia a suonare e quando si smette; inoltre parla, ha una sua voce, una sua biografia, si muove e risulta dunque esattamente come il membro di una band, dato che suona degli strumenti con il suo registratore a nastro. È stato un po’ come nella storia di Frankestein: “Si può fare!”, ci siamo detti ad un certo punto, gli abbiamo dato vita. Con questo terzo disco abbiamo poi spinto un po’ di più l’immagine sui due musicisti, Simon Diamond e Dave The Wave, ma Tin Woodman risulta sempre una figura importante.

D: La presenza del robot ci dà abbastanza trama per poter stendere delle diramazioni della storia per come l’abbiamo dipanata sinora, con tutti i personaggi che gravitano attorno al robot. Con quest’ultimo album c’è stato un allargamento esponenziale della storia, che vede anche noi descrivere lui, lui descrivere noi, con anche eventi del Ventesimo secolo visti dal suo punto di vista e dal nostro. È sostanzialmente lui che ci dà l’input, è il suo character che ci arricchisce.

S: Il robot ha sostanzialmente la possibilità di diventare critico dell’umanità, ma anche quella di essere un punto di vista esterno incuriosito, di posizionarsi nella storia del mondo come meglio noi desideriamo. È una possibilità di avere occhi su tutto: lui parla attraverso te, tu parli attraverso lui ma in questo disco si parla anche insieme. Questo almeno per quanto riguarda l’aspetto delle lyrics.

 

Questo disco è anche molto più ampio e sfaccettato a livello sonoro: si sente che avete incorporato tante influenze diverse e le avete sintetizzate in maniera decisamente efficace.

D: Abbiamo ascoltato molte più cose assieme, ci siamo scambiati tracce e riferimenti per tutta la fase preparatoria, in maniera molto più intensa e cosciente rispetto al disco precedente.

S: C’è da dire anche che la preparazione è stata molto lunga, abbiamo avuto modo di lavorare sui pezzi per parecchio tempo, c’è stato un grosso labor limae per poi arrivare in studio e mettere in gioco tutto. Eravamo così padroni dei provini che abbiamo fatto, da poter vivere tranquilli per poter mettere di nuovo tutto in gioco, avendo colto perfettamente l’obiettivo del brano. Sulle influenze, credo che l’aspetto principale sia stato che io e Davide abbiamo avuto la capacità di fornirci reciprocamente stimoli nella scrittura. Io che non ho gli stessi ascolti suoi, mi sono lasciato travolgere dalla sua scrittura, per cui si sente spesso un sapore che è frutto delle mie cose ma derivate da basi strumentali scritte da lui, e viceversa. Questa dinamica ha amplificato lo spettro ed è stato un processo spontaneo: ascoltarsi di più e mettersi in gioco, l’uno nella capacità compositiva dell’altro. E il risultato è che è venuto fuori un suono nostro, che è immediatamente riconoscibile, immediatamente Tin Woodman.

D: Dal punto di vista acustico, di produzione e di arrangiamenti abbiamo cercato di capire come usare al meglio gli strumenti che c’erano in studio, mettendo insieme cose che avevamo già usato e usandone altre in maniera diversa. Grazie soprattutto a Simone Piccinelli de La Buca Recording Club, che ci ha dato una mano con gli arrangiamenti e il missaggio, e che è stato proprio il produttore dell’album. Ecco, lui è stata l’unica persona a cui abbiamo dato la chiave d’accesso per rileggere quello che avevamo e spingerlo ulteriormente, partendo da quello che avevamo fatto in precedenza ma con forme e modalità che non avevamo considerato. Quindi lui ha fatto un grande lavoro artistico, ci ha coinvolti e si è coinvolto in tutte le fasi della lavorazione.

S: Non è facile per una band con due musicisti che hanno questo tipo di impronta. Non siamo come le altre band che si possono trovare in sala prove e compongono attraverso delle Jam. Il nostro tipo di composizione è studiato nei minimi particolari, noi studiamo ogni strumento, per cui registriamo le canzoni più e più volte. Questo ci ha portato il più delle volte ad essere troppo dentro il lavoro, per cui affidarci ad un produttore è stato un punto di svolta. Trovare qualcuno e affidarsi ad esso, arrivando anche a privarsi di qualche dettaglio o elemento in cui si credeva ma che, nell’economia del brano, non funziona. Tu non lo vedevi perché eri troppo coinvolto, lui è invece in grado di farlo, visto che ha un’altra prospettiva sul lavoro.

 

È interessante perché, ascoltando i vostri dischi, viene spontaneo pensare che, per poter essere adeguatamente riprodotta dal vivo, la vostra musica abbia bisogno di una band completa. Invece poi sul palco siete solo voi due e Tin Woodman, non avete una sezione ritmica “fisica”, tante cose le avete sul nastro, eppure l’effetto, a giudicare dai video che ho trovato su YouTube, non è per niente male…

D: Essere solo in due non diventa per noi un handicap, non cerchiamo di rincorrere qualcosa che ci manca in modo da poterlo riempire. Il nostro modo di comporre musica ci porta a pensare a come vorremmo sentire la canzone, sia sul disco che dal vivo. È un percorrere tutta la strada più volte, conoscendone ogni angolo in modo tale da poterlo arricchire e sottolineare.

S: Normalmente band classica, con la sezione ritmica, immagina il live nel senso del suonare. Noi invece ci immaginiamo uno show completo, a tutto tondo, che è un aspetto che forse le band si perdono. Un concerto infatti non lo ascolti solamente, lo devi anche vivere. Dal nostro punto di vista, proviamo a dare tutti gli input all’ascoltatore, in modo da travolgerlo visivamente e acusticamente, come movimento, come sensazione.

 

Da quel che ho capito, i pezzi del nuovo disco ruotano tutti attorno ad uno stesso nucleo tematico…

D: Quando siamo arrivati alla fine dei brani ci siamo resi conto che ciascuno di essi conteneva un messaggio che aveva a che fare con questi “eterni amanti” del titolo, che vengono citati in un verso di “Deezworld”.

S: Al momento di registrare il disco è arrivata la pandemia, non siamo riusciti ad andare in studio e abbiamo potuto fermarci a riflettere. Lì ci siamo accorti che il filo conduttore del disco era proprio quello, era come se i suoi ideali destinatari fossero quelle persone che non mollano quell’idea di amore.

D: “Eterni amanti” perché è un’idea a cui non riescono a rinunciare. Quindi non è un concept album ma è un album con un grande concept, non so se si capisce!

 

Un altro elemento importante è il 1989, che utilizzate sia come mero anno di nascita di uno dei personaggi, sia come momento spartiacque nella storia mondiale…

D: “1989” è una canzone d’amore, quando abbiamo dovuto darle un titolo abbiamo pensato di indicare l’anno di nascita della ragazza protagonista, però poi ci siamo accorti che avevamo già messo quel numero in “Gooshie White”: lì ci si riferisce proprio al muro di Berlino, è Tin Woodman che racconta dalla sua prospettiva quegli eventi, esprimendo le sensazioni legate a quel periodo. Senza neanche rendercene conto, quindi, le canzoni si agganciavano l’una all’altra.

 

A proposito di questo, visto che Tin Woodman gode di vita propria, sarebbe interessante capire che cosa potrebbe pensare ora, dato che l’attuale guerra in Ucraina sembra confermare quel che era in qualche modo visibile da tempo, e cioè che le promesse di libertà veicolate dal crollo del muro di Berlino siano state decisamente tradite…

S: Ah beh, di sicuro potrebbe uscirne un album nuovo!

D: Si spera sempre di affrontare discorsi a tema positivo, però se vista con gli occhi del Tin Woodman di “Songs For Eternal Lovers” sicuramente potrebbe essere una delusione. Il nostro robot nasce per incontrarci, la sua natura è di conciliazione, di pace, di positività…

S: Probabilmente ci direbbe: “Ma davvero? Ancora una volta? Ma non mollate proprio mai?”. Da robot guarderebbe noi umani con l’idea di dire: “Ma che problema avete?”. Anche in altre occasioni è critico, l’abbiamo già usato in passato per fare della critica, è un modo di esporsi efficace perché il messaggio che vogliamo esprimere è dato da qualcuno che è per così dire super partes. Ora, se ci comportiamo come degli imbecilli penso che lui abbia tutto il diritto di dircelo...

D: Che poi, essendo una macchina, ha poco margine di errore; una macchina analogica come lui è tarata per essere perfetta: può fare quello che gli è stato detto di fare, non è certo una macchina che genera separazione, distruzione; è fatta per stare sul palco e per generare le proprie storie.

S: L’aspetto più umano di Tin Woodman, che lo spinge a criticare, è quello spirito di autoconservazione per cui lui era in origine un robot musicista che era stato abbandonato e che si ritrova a rinascere salendo sul palco, non troverebbe nessun senso nell’impedire l’aggregazione. Quello che sta accadendo ora è una forma di scissione di individui, di popoli… la violenza è la cosa più divisoria del mondo, lui invece è fatto per suonare e la musica unisce, non capirebbe mai quello che sta accadendo adesso. Probabilmente caccerebbe un “Error” continuo…

 

Come vi ponete nei confronti della musica scritta da un’intelligenza artificiale? Holly Herndon, per esempio, qualche tempo fa ha realizzato un disco intero in questo modo…

S: Tin Woodman è un robot analogico, la musica è su nastro, ha quell’aspetto fisico che non c’entra col digitale. Tin Woodman ha in sé un’idea fisica, quindi non credo che ci potremmo arrivare.

D: Sono due cose completamente diverse: noi usiamo convertitori e plug in digitali ma li mettiamo insieme all’analogico, non credo che potremmo mai essere influenzati da quel discorso lì. Tin Woodman oltretutto è un robot ripescato dagli umani, è stato ideato in un’epoca in cui l’errore veniva gestito e risolto da una crew di persone: la sua storia comincia nel 1986, è evidente che la parte umana non possa mancare.

 

In “Gamma Ray Chewingum” ha suonato e cantato Roberto Dellera, bassista degli Afterhours ma anche membro dei progetti The Winstons e DELLERA. Com’è stato lavorare con lui?

S: Roberto è una persona che ascolta un sacco. Lo abbiamo contattato in maniera molto semplice: gli abbiamo detto, dopo averlo già conosciuto in altre circostanze (in passato Davide aveva aperto un paio di concerti dei The Winstons) che avevamo un brano sul quale ci sarebbe piaciuto che lui cantasse. Gliel’abbiamo fatto ascoltare, gli è piaciuto ed è venuto in studio con noi. Ha fatto una parte fantastica, siamo veramente contenti. Sai, quando si pensa ad un featuring con un personaggio del suo calibro, che oltre ad essere il bassista degli Afterhours ha suonato con persone gigantesche, due anni fa, per dire, era a Matera a fare i cori per Damon Albarn… eppure la sua grandezza di musicista l’abbiamo vista sul palco e in studio, nel fatto che si è messo in gioco davvero: non è venuto in studio come una rockstar ma si è dimostrato una rockstar nel modo in cui è stato in studio, nel suo amore per la composizione, per la musica. Siamo stati noi, figurati, che abbiamo dovuto dirgli di smettere, lui si era gasato un casino, la parte gli era piaciuta, fosse stato per lui sarebbe stato lì anche due giorni ma noi avevamo finito!

 

Da ultimo, mi sembra inevitabile toccare anche questo argomento: voi fate un genere che dalle nostre parti non gode di grande diffusione e in generale l’Italia è un paese dove gli ascoltatori sono pochi, non sono molto curiosi e tendono ad accodarsi di volta in volta a ciò che va di moda. Come vi ponete di fronte a tutto questo?

D: La questione ci si pone di fronte ogni volta che troviamo delle persone che ci chiedono: “Non avete mai pensato di volere fare qualcosa in italiano?”. No, non ci è mai passato per la mente di voler fare qualcosa che cambiasse quella che è la nostra vera natura di ricerca. In Italia c’è una mentalità legata più alla comprensibilità piuttosto che alla ricerca. Parlo di una comprensibilità di partenza, dove non c’è bisogno di parafrasare nulla, dove tutto è letterale: come te lo trovi davanti, così è da capire. Noi ci sentiamo invece parte di una cultura esterofila che parte dalla ricerca per poi lasciare la lettura, per quanto possa essere interpretata, al pubblico. Conoscere un progetto non vuol dire avere già capito tutto, perché altrimenti viene meno la sua profondità.

S: E parliamo forse anche della tua profondità di ascoltatore, perché se scegli che tutto ti debba essere servito senza un tuo minimo sforzo, significa che non vuoi andare incontro a nessuno sviluppo di te, è come se decidessi di vivere in una fantastica comfort zone: non morirai mai ma non vedrai mai il mondo. Poi è vero che in Italia, pur essendo molto coprofagi dal punto di vista mainstream, la varietà delle proposte esiste eccome! Occorre dunque lottare dal basso perché possano emergere.

 

 

Non è stato facile resistere oltre la mezzanotte (l’anno scorso mi ero illuso che i concerti avrebbero potuto iniziare e finire prima, in alcuni posti sta anche accadendo ma il malcostume assolutamente inutile di suonare ad ora tarda evidentemente è duro a morire) ma alla fine la fatica è stata ripagata: i Tin Woodman avevano ragione, il loro è davvero uno show con tutti i crismi. Aspetto scenico molto curato, con tanto di dress code da rockstar retrofuturiste, visual alle loro spalle, due gigantesche lettere di cartone, T e W, ai lati dello stage, un minimo di coreografia a coordinarne i movimenti e una prestazione decisamente maiuscola dal punto di vista musicale. Il robot in mezzo a Davide e Simone, ogni tanto muove braccia e testa, la bobina che ha al suo interno gira incessantemente, la mancanza di una sezione ritmica fisicamente presente non si fa sentire più di tanto ed è una sorpresa. Fin dall’iniziale “Barber Lover” si vola alti, il tiro è notevole, gli episodi a maggior spinta propulsiva come “Lovers”, “Supercar”, “Tropicalia Woodie Resort”, “April O’ Neil” funzionano benissimo, affiancati alle cose più lente e psichedeliche, come “Roverbot”, “Starship” e “1989” garantiscono una bella varietà di mood alla setlist. Belli anche alcuni brani più datati come l’eterea ballata “I Could See Through The Dark” o “Metal Sexual Toy Boy”, che arriva direttamente dal primo EP. Finale con un’ottima “Big Brian Feelings”, tra le più rappresentative di “Azkadellia” e tutti a casa a dormire.

Bravi davvero, i Tin Woodman. Arriveranno altre date, vi consiglio di non perderveli.