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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
08/01/2024
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Winter Severtity Index
Le Winter Severity Index non sono solo una delle migliori band goth-coldwave italiane, sono anche delle persone intelligenti e preparate con cui è stato un piacere parlare e potersi confrontare. Qui l'esito delle "chiacchiere" con il nostro Stefano.

In occasione del concerto delle Winter Severity Index all’ARCI Bellezza ho avuto modo di conoscere personalmente Simona e Alessandra. L’idea di fare un’intervista (già in fieri prima del concerto) si è così resa più cogente, sfociando nella serie di domande di seguito riprodotte.

Ringrazio quindi anzitutto Simona ed Alessandra, che hanno voluto entrambe rispondere ad ogni questione posta, anche se non prettamente musicale e talvolta “scomoda”, senza nascondersi dietro luoghi comuni o stucchevoli perifrasi.

 

Come già occorso nell’intervista fatta con Hilary Woods (qui) quello che emerge (e che personalmente trovo intrigante) è come una libera dialettica tra chi pone le domande e chi vi risponde possa, dal lato di chi intervista, divenire un atto di realismo al di là di ogni possibile compiacimento o volontà di trovare conferma ad un proprio pre-concetto, dal lato (nel caso specifico delle intervistate) di trovare un luogo, uno spazio dialogico dove il proprio fare viene sottoposto al giudizio dell’ascoltatore.

Dunque, se questo è il perimetro dell’incontro, ognuno può trarre le proprie conclusioni, nel comune auspicio che nel dialogare reciproco possano svelarsi degli angoli nascosti prima neppure pensati.

 

 

 

Inizio subito dicendovi che mi fa molto piacere intervistarvi, in quanto seguo il vostro percorso musicale praticamente dal vostro primo omonimo EP del 2011. Partirei però da lontano, voi venite da Roma, storicamente la capitale ha dato molto alla cosiddetta scena “goth-coldwave”, a partire dagli anni Ottanta con Il Carillon del Dolore (personalmente reputo Trasfigurazione il disco “dark” italiano per eccellenza) passando poi, ad esempio, per i Marbre Noir, vi ritenete inserite in una sorta di tradizione, di passaggio del testimone, o meno?

S: Ciao Stefano, piacere più che reciproco, grazie mille. Ovviamente essere inscrivibili in una tradizione così ricca non può che farci piacere, ma penso che per essere a pieno considerati eredi di qualcosa ci voglia la volontà di esserlo, ossia l’ispirazione dovrebbe essere intenzionale e diretta. Sinceramente mi sento di dire che le nostre ispirazioni sono piuttosto varie e non necessariamente legate alla scena new wave cittadina, nemmeno nazionale tutto sommato. Ovviamente entrambe adoriamo i gruppi che hai citato, come tanti altri gruppi italiani degli anni Ottanta, ma non ci riteniamo portatrici di nessun testimone. Non è nostra intenzione tracciare una linea di continuità con il passato pur riconoscendone il valore, ecco.

A: La cosiddetta scena goth-coldwave non nasce propriamente in Italia; quindi, non mi sento direttamente di discendere dai gruppi romani che hai citato, anche se ci muoviamo nello stesso ambiente. Ci sono tante declinazioni o espressioni diverse di questo genere musicale che ogni gruppo interpreta in un modo peculiare proprio ed è questa peculiarità che fa la differenza. Essere originali, non essere l’imitazione-di o ricordare qualcuno di già esistente dovrebbe essere già un traguardo per una band legata a una scena indipendente con una tradizione così lunga e varia alle spalle.

 

Ritengo che il vostro sound nel tempo si sia evoluto pur mantenendo i classici stilemi post-punk, prendiamo ad esempio al primo EP sopra menzionato, ma anche a Survival Rate, comprendendo anche Slanting Ray, penso vi siano stati due punti non dico di rottura, ma di frattura o di salto evolutivo, il primo coincidente con l’album Human Taxomony del 2016. È una mia impressione o corrisponde al vostro sentire?

S: Assolutamente corretto! Ripetersi non ha molto senso, soprattutto per quanto riguarda chi fa musica underground. Se si fa musica con il preciso intento di ricavarne in primis un giovamento personale, una soddisfazione non necessariamente legata a un ampio riscontro di pubblico né tantomeno un riscontro economico, non vedo perché si debba insistere con degli stilemi, portandoli avanti fino allo sfinimento per produzioni e produzioni. Il bello è soprattutto sperimentare, crescere, rispondere a esigenze espressive diverse nel corso della propria vita. Quindi, a meno che non si debba rispondere a un vincolo strettamente economico di coerenza di brand, non vedo perché fossilizzarsi. Si tratta di un vincolo molto avvilente, al quale si sottomettono in molti oggi giorno, mente i grandi artisti del passato hanno dato ben altro esempio. Ecco forse perché oggi li ricordiamo come grandi. Bisogna imparare dai grandi. E soprattutto bisogna rischiare, anche di non incontrare il favore del pubblico.

A: Credo che la presenza o assenza di alcuni strumenti faccia la differenza nell’evoluzione del sound (o frattura), che hai sentito tra il primo EP, Survival Rate e la produzione successiva. All’inizio erano in quattro con la batteria acustica, adesso suoniamo con la drum machine. Già questa sostituzione conferisce al suono, ma anche a livello compositivo e di arrangiamento dei brani, delle soluzioni diverse. Se a questo aggiungi che dal 2013 sono subentrata io al progetto, con altre tastiere e altre idee per portare a termine Slanting Ray, iniziato anni prima con le altre ragazze, effettivamente non è una tua impressione, qualcosa è cambiato. Inoltre anche Simona ed io siamo cambiate, le nostre vite sono cambiate nel corso di questi anni e questo cambiamento non può non influenzare anche l’aspetto della creatività di una persona.

 

Con l’ultimo album, Disgelo, quale secondo “punto di frattura”, se così lo si può definire, lo spettro della vostra ricerca musicale mi pare si sia ancor più ampliato, ad esempio, con un maggiore utilizzo dell’elettronica, vedasi ad esempio la prima traccia, “Solar Cycle 25” o anche nella successiva “State of Matter”, le cui parti vocali mi ricordano addirittura, non so se il paragone sia azzardato, un modo di cantare simile ad alcuni brani dei Matia Bazar del periodo synth-pop. Quale è il motivo di tale scelta “elettronica”?

S: Innanzitutto, grazie per questo paragone! Sono molto lusingata. Il motivo di questa scelta è legato principalmente a un ampliarsi dei miei interessi come musicista. Da qualche anno a questa parte mi sono dedicata allo studio della fonia e dei sintetizzatori, passione che è nata dai miei ascolti dedicati alla musica elettronica, principalmente degli anni Settanta/primi Ottanta, Krautrock e affini. Quindi è stato quasi naturale voler inserire questo tipo di linguaggio nella produzione del nostro terzo LP. Un approccio alla composizione molto diverso che ci ha permesso di ottenere un suono probabilmente più coeso e un dialogo fra varie linee melodiche più intricato e divertente.

A: La risposta penso risieda nella curiosità di sperimentare e cimentarsi con qualcosa di nuovo e diverso da quello a cui siamo abituati. Per questo più che una “scelta”, lo definirei un bisogno, una necessità di trasformazione che porta a evolversi in qualcosa di nuovo.

 

Siete oramai sulla scena da molto tempo, avendo pubblicato diversi album ed essendovi esibite in diversi paesi europei, mi pare recentemente anche per la prima volta in America, che sensazioni avete avuto? Cosa vuol dire esibirsi all’estero per un gruppo italiano?  

S: Non credo ci siano delle differenze per un gruppo italiano rispetto a un gruppo di qualsiasi altra provenienza. Per tutti, quando si suona in paesi diversi dal proprio, l’esperienza è sempre stupenda perché si viene in contatto con modi differenti di intendere la musica e di partecipare alla performance live. Ad esempio, gli spagnoli sono molto partecipi e calorosi anche durante l’esibizione, un po’ come gli italiani, mentre i tedeschi sono molto silenziosi durante lo show, ma estremamente entusiasti alla fine, non c’è una volta in cui non chiedono un bis! E ovviamente noi siamo ben felici di accontentarli. Il pubblico del Substance Festival di Los Angeles è stato anch’esso molto caloroso, è sempre molto emozionante sapere che qualcuno dall’altra parte del globo terrestre ha delle aspettative così alte nei confronti della tua musica, conosce i testi e i pezzi, esulta quando inizia il suo brano preferito. Una cosa però vorrei dirla: molto spesso ci è capitato di ricevere commenti increduli sulla nostra provenienza, molti non credono che musica del genere possa essere prodotta da italiani. Mi chiedo francamente quale sia la motivazione di questo stupore.

A: Esibirsi fuori dal proprio paese è sempre una grande emozione, non solo per il confrontarsi con altre culture, ma anche perché essere chiamate a suonare all’estero è una conferma del percorso intrapreso. Essere richieste in giro grazie alla musica che facciamo è una grandissima soddisfazione, così come è successo lo scorso novembre in California o in generale quando usciamo dall’Italia.

 

È un periodo dove si fa molto parlare della parità di genere, non volendo né piacendomi dare alcuna colorazione politica, ritengo che, anche nel mondo “rock”, seppur talvolta ancora foriero di pregiudizi, la risposta migliore a tale situazione, risultino essere le cosiddette all female band. Per esempio, il sottoscritto nell’ultimo anno ha recensito il disco di Bono Burattini, oppure l’avant-pop della Bas Jan, o ancora i concerti coinvolgenti delle The Darts, oppure artiste singole come Hilary Woods. Ritengo che la buona musica trascenda dal genere, anche se, ad esempio, questo è forse più marcato nella musica classica, i preludi di Chopin suonati dalla Pires, o Mozart suonato dalla Haskil, sono interpretati in modo diverso rispetto a quelli di un Rubinstein o di un Richter, che ne pensate?

S: Personalmente non credo che la differenza di genere sia una cifra distintiva dal punto di vista espressivo, compositivo, esecutivo e quant’altro. Le differenze di genere sono esclusivamente steccati sociali che personalmente trovo castranti e avvilenti, sia per chi li vuole per forza riconoscere, sia per chi si trova a dover per forza incasellare la propria personalità in una categoria piuttosto che un’altra. Del resto abbiamo dedicato un album all’alienazione derivante dalla smania classificatoria del genere umano (Human Taxonomy, il nostro secondo LP). Dal punto di vista strettamente biologico (unico campo in cui a mio parere ha senso parlare di genere) la sessualità è un dato dicotomico solo dal punto di vista dell’aspetto dell’apparato riproduttivo, mentre da altri punti di vista si tratta di un aspetto estremamente sfumato e variegato. Non esiste un modo esclusivo di essere donna o uomo. Non esiste quindi nemmeno un modo esclusivo col quale la sessualità si manifesta in ogni campo del pensiero umano. Chi vuole riscontrare a tutti i costi dei tratti “femminili” o “maschili” in ogni campo dello scibile è vittima egli stesso di stereotipi sociali che dovremmo invece tenere a debita distanza ogni qual volta si vuole formulare un giudizio.

Tornando a un discorso strettamente musicale, per quanto riguarda il progetto Winter Severity Index non c’è mai stata alcuna intenzionalità nell’includere fra i suoi partecipanti esclusivamente membri di sesso femminile. Del resto, ci siamo esibite nelle nostre performance live per moltissimi anni a fianco di Giovanni Staccone al basso che, pur non avendo un ruolo di compositore nella band, è stato di importanza fondamentale come esecutore. Personalmente sono scettica nei confronti di qualsiasi visione programmatica quando si parla di band con soli elementi femminili, mi viene un po’ da ridere e provo anche un certo fastidio nel pensare che ancora possa essere considerato un dato interessante di per sé il fatto di suonare uno strumento musicale ed essere una donna, come le due cose assieme rappresentino un motivo di meraviglia, di tipo quasi circense, alla Barnum Freak Show. Anche basta.

A: Personalmente penso che nel 2023 questi discorsi siano obsoleti e anacronistici. La sensibilità, il gusto estetico, la tecnica esecutiva non sono appannaggio maschile. Essendo noi donne in possesso di un pollice opponibile e capacità di coordinamento psico-motoria esattamente come gli uomini, non ritengo possano esistere differenze di genere nella musica. E se viene avvertito ancora oggi così, purtroppo dipende dalla società in cui viviamo, che ancora produce idee e pregiudizi di questo tipo.

 

Una ultima domanda d’obbligo, cosa aspetta il futuro delle WSI?

Chi vivrà vedrà. Noi comprese, ovviamente.