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REVIEWSLE RECENSIONI
24/04/2023
Baustelle
Elvis
Passare da next big thing adorata dagli studenti universitari a Rock band matura e consapevole non è roba da tutti. I Baustelle in ventitré anni di carriera ci sono riusciti e al momento non riesco a pensare ad un gruppo italiano che sia invecchiato meglio di loro: già solo per questo ci sarebbe da inserire Elvis tra i dischi più belli dell’anno.

Sono passati cinque anni dall’ultima apparizione pubblica dei Baustelle (il concerto in cui hanno eseguito interamente Amen alle OGR di Torino) e altrettanti dal loro ultimo disco in studio, la seconda parte della saga de L’amore e la violenza. A ben guardare, per un gruppo come il loro, che ha ormai superato i due decenni di carriera, non rimane altra opzione che questa: centellinare il più possibile le uscite, tornare sulle scene solo quando si è certi di avere qualche cosa da dire, recitando così la parte dell’act importante, quello che non ha bisogno di rinnovare la propria esposizione mediatica per rinfacciare al mondo la propria rilevanza.

Anche perché, è mia opinione personale da parecchio tempo ma sono certo di non essere il solo, i Baustelle hanno esaurito la spinta propulsiva da parecchio tempo: Amen è stato il loro capolavoro definitivo, si fossero sciolti all’indomani di quel disco, ci avrebbero lasciato quattro album pazzeschi e li avremmo ricordati lo stesso tra le band italiane più importanti degli ultimi decenni.

 

Dopo il 2008 hanno provato la loro personale svolta cantautorale ma, almeno per quanto mi riguarda, non è andata benissimo, con I mistici dell’Occidente che era un pasticciaccio senza troppa coesione e Fantasma un lavoro pesante e pretenzioso fino all’inverosimile.

Ci sono stati quattro anni di pausa e poi il ritorno con L’amore e la violenza, ritorno molto studiato e ammiccante ai fasti decadenti degli esordi, il primo volume molto più ispirato del secondo, ma una generale sensazione che d’ora in poi si sarebbe andati avanti di mestiere e nulla più.

 

Diciamolo subito: Elvis, per quanto abbiano dichiarato essere l’inizio di una nuova fase, per quanto si sia evocata una svolta stilistica, è e rimane un disco manieristico, ma possiamo affermare senza ombra di dubbio che la pausa che hanno deciso di prendersi ha fatto loro bene. Francesco Bianconi ha realizzato con Forever il capolavoro da cantautore che non gli era riuscito con la band; Rachele Bastreghi ha dimostrato con Psychodonna di essere anch’essa un’autrice di classe, perfettamente in grado di muoversi su territori ben diversi da quelli del gruppo.

Queste prove soliste li hanno fatti tornare con una consapevolezza ed un’esperienza maggiore, da cui derivano probabilmente l’idea di rinnovare parzialmente il proprio look, di avvalersi di nuovi musicisti nel lavoro in studio, e di variare quasi del tutto i propri punti di riferimento a livello di influenze.

 

Elvis rappresenta dunque qualche cosa di diverso da quello che normalmente eravamo abituati a sentire dai Baustelle ma solo a livello di vestito sonoro. Guardare alle radici del Rock (non tanto ad Elvis, come ha spiegato di recente Bianconi, ma a coloro che a lui si sono ispirati, da Bowie ai T. Rex, passando per il Lou Reed di Transformer), all’America e ad una struttura di canzone che prenda le mosse dal Blues, è un cambiamento di prospettiva che si sente tanto a livello di arrangiamenti: ci sono tantissimi fiati (una soluzione  a memoria mai adottata in precedenza) ed episodi come “Milano è la metafora dell’amore”, “Betabloccanti cimiteriali blues” e “Gran Brianza lapdance asso di cuori stripping club” fa capolino una luminosità quasi Soul, anche questa decisamente inedita; per non parlare poi di “Jackie” e “La nostra vita”, insolitamente ruvida la prima, mood orchestrale tra Beatles e Love la seconda, in entrambi i casi piene di chitarre, nell’impressione che si intenda recuperare qualcosa di essenziale.

In generale parliamo di un disco asciutto, quasi grezzo, quasi fosse la versione musicale di quelle foto in bianco e nero con cui hanno presentato i singoli e che accompagnano anche il prodotto finito. Look sobrio, jeans, maglietta e qualche tatuaggio discretamente esibito (richiamo voluto alla copertina di Sticky Fingers) che il contributo dei nuovi collaboratori Alberto Bazzoli, Milo Scaglioni, Julie Ant e Lorenzo Fornabaio hanno tradotto in musica donando ai brani una sobrietà e in qualche modo una semplicità in un certo senso parecchio distante da quando era uno come Diego Palazzo a lavorare dietro le quinte.

Al di là di questi aspetti, però, la scrittura è sempre quella dei Baustelle, come del resto aveva già dimostrato il primo singolo “Contro il mondo”, ennesima variazione, per quanto godibilissima, del tema di Charlie fa surf o Amanda Lear.

 

Difficile, e forse anche superfluo, aspettarsi mutamenti sostanziali a questo punto della carriera: basta e avanza questo restyling, questa voglia di guardare altrove e soprattutto questa innata maestria di saper scrivere canzoni splendide, che saranno di mestiere quanto volete ma che in fatto di qualità sono pur sempre tra le cose più belle che potrete ascoltare di questi tempi in Italia.

Anche a livello tematico nulla è cambiato, con Bianconi che approfondisce ulteriormente il discorso portato avanti su Forever, mostrandosi se possibile ancora più sincero e disincantato di fronte alla vita. Parole come: “Per dimenticare i nostri cuori deserti e che un giorno o l’altro si dovrà pur morire, andiamo ai rave. Per restare vivi organizziamo concerti, party sulla spiaggia dove socializzare, per non vedere il vuoto mai dentro di noi” dell’iniziale “Andiamo ai rave” non aggiungono granché alla sua poetica ma sentire certe considerazioni espresse con tale lucidità fa un certo effetto e, particolare non da poco, non sono in molti, perlomeno in Italia, ad avere la libertà di esprimere giudizi del genere.

Stessa cosa per “Los Angeles”, a metà tra anatomia autoironica di un fallimento e versione aggiornata de La guerra è finita, che sarebbe da inserire dritta dritta tra i loro più grandi capolavori se non fosse che qui il senso di della vu è decisamente opprimente (il ritornello è oltretutto fin troppo simile a quello di “Contro il mondo”). Viene il dubbio, ascoltando questa dichiarazione di sconfitta e di vanità di tutte le cose, che i Baustelle, già durante i loro primi anni avessero una marcia in più in fatto di autocoscienza, cosa che, con tutto il bene del mondo, non è possibile riscontrare negli artisti di ultima generazione, fin troppo appiattiti, almeno all’apparenza, su frasi fatte ed edonismo da social network.

 

In un lavoro nel complesso ottimo ma che non contiene certo brani memorabili, le uniche eccezioni potrebbero forse essere rappresentate dalle tracce conclusive, “Il regno dei cieli” e “Cuore”: la prima è a tratti magniloquente, per andamento ed argomenti potrebbe essere uscita da Forever, in costante equilibrio tra dimensione terrena e spirituale (l’idea per cui Dio ci regala un pezzo del regno dei cieli per non farci impazzire è decisamente poco scontata e, di nuovo, ribadisce per l’ennesima volta come Bianconi sia un paroliere con pochi eguali in Italia), con un finale di stampo corale che appare quasi come un’invocazione di salvezza, pur con il dubbio che rimanga un sottotesto ironico.

“Cuore” è invece una ballata pianistica con un leggero accompagnamento di archi nella seconda parte, una roba che hanno fatto chissà quante volte ma mai così bene e, soprattutto, con una Rachele che raramente è apparsa così ispirata (c’è da dire che questo è forse il disco in cui canta di più e che si tratta forse della sua migliore prova di sempre).

 

Passare da next big thing adorata dagli studenti universitari a Rock band matura e consapevole non è roba da tutti. I Baustelle in ventitré anni di carriera ci sono riusciti e al momento non riesco a pensare ad un gruppo italiano che sia invecchiato meglio di loro (i Verdena, probabilmente, ma è anche vero che per loro vale più il discorso della coerenza e della fedeltà alle radici): già solo per questo ci sarebbe da inserire Elvis tra i dischi più belli dell’anno.