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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
07/03/2022
Múm
Finally We Are No One
Elettronica onirica e spettrale solo apparentemente algida, mirabilmente abbinata a voci eteree e strumenti da camera, con una grazia misteriosa che scalda il cuore. Ecco ciò che pervade le canzoni di Finally We Are No One, così emozionanti da rimanere dolcemente appiccicate in testa.

Sono trascorsi vent’anni dall’uscita di questo affascinante capitolo dei Múm, a quei tempi quartetto composto dalle due virtuose gemelle adolescenti Gyða e Kristín Anna Valtýsdóttir, fin da piccole geniali interpreti di formazione classica, l’una violoncellista e l’altra pianista, insieme all’istrionico Gunnar Örn Tynes, noto per essere anche un raffinato produttore, e a Örvar Þóreyjarson Smárason, musicista dalle mille sfaccettature con la passione per scrittura e poesia.

Un’alchimia nata nel lontano 1997 a Reykjavik, terra di sperimentazione che ha sempre ospitato una fiorente scena musicale alternativa, e sviluppatasi alacremente con le prime performance dal vivo in cui oltre ai canti e agli strumenti da camera suonati dalle sorelle si aggiungono glockenspiel, harmonium, melodica e, come creatori di groove, un paio di computer Powerbook.

L’influenza di un guru dell’Ambient techno come Aphex Twin caratterizza in parte il disco d’esordio del 2000, Yesterday Was Dramatic, ma il gruppo si fa notare subito per una forte crescita artistica che lo conduce in poco tempo a confezionare un prodotto originale dalle sfumature più dark, contaminato da usi e costumi del Paese, e a ricevere notevole attenzione pure al di fuori dell’isola.

Finally We Are No One consolida il riconoscimento raggiunto dalla musica islandese, che, effettivamente solo qualche anno prima poteva essere considerata al più un refuso. A pensarci bene serviva semplicemente sostituire la “s” con la “r” e tutto sarebbe tornato a posto, con il benestare del giradischi, pronto ad accogliere qualsiasi voce che richiamasse la grande tradizione d’Irlanda. Ma il tempo ha modificato questa situazione e, a cominciare da quell’intrigante precursore di nome Bjork e i suoi Sugarcubes, di acqua ne è passata tanta sotto il ponte del cielo d’Islanda, dal torrentizio post-rock dei Sigur Rós al tumultuoso indie-folk degli Of Monster and Men.

E i Múm si ritagliano uno spazio speciale in questa nicchia per merito di tale lavoro, caratterizzato da un’elettronica di rarefatta natura, catartica, frutto di una ricerca sonora perfetta, con i brani, principalmente strumentali o con brevi testi carichi di metafore, che scivolano uno sull’altro, filo dopo filo nel tessuto della narrazione, quasi fondendosi, pur mantenendo la propria singolare unicità.

"Green Grass of Tunnel" è il manifesto di quanto esplicitato, posta appositamente “in cima” al disco, dopo la breve sognante introduzione, già onirica nel titolo, chiamata "Sleep/Swim". “L’erba verde della galleria” è una specie di filastrocca surreale amabilmente cantata dalle sorelle e permeata da un’aura da favola con liriche che, a voler maliziosamente guardare, potrebbero avere un piccante doppio senso, ma è difficile analizzare fino in fondo l’importanza delle parole in una composizione in cui primeggia la ricerca di un suono etereo, senza tempo, laddove i sussurri e i sospiri si intersecano in un orientamento ambient nel quale il computer la fa da padrone, dominando pure la grafica nel meraviglioso video di accompagnamento al pezzo, scelto saggiamente come singolo.

Non manca, comunque, l’approccio “vintage” e la briosa "We Have a Map of the Piano" ne è un esempio con quel crescendo di percussioni grazie a Samuli Kosminen e a qualche ruggito di chitarra, mentre "Don’t Be Afraid, You Have Just Got Your Eyes Closed" sperimenta il tentativo di trovare la melodia perfetta in un tappeto sintetico di rara bellezza, risultando anche divertente. Sicuramente un altro degli apici della raccolta è la breve, ma intensa "Behind Two Hills... a Swimmingpool", ninna nanna dolcemente triste che a tratti ricorda il fischio in "Vecchio Frac" di Modugno, con il titolo che riprende le parole presenti in "Green Grass of Tunnel".

La natura è il tema ricorrente, sia nell’accuratezza del sound volto a rappresentarla, sia nei termini utilizzati: l’acqua, in tutte le sue accezioni, specialmente se racchiusa in una piscina per nuotare, il verde della vegetazione, la collina e il grande sonno, contornato da sogni che possono diventare incubi, sono metafora di vita e riecheggiano nella totalità del progetto.

La scelta di concepire le canzoni per l’album a Galtarviti, un faro nei fiordi occidentali, si dimostra vincente perché i Múm sono riusciti a immagazzinare le arcane sensazioni provate in quel posto e a riversarle nella loro musica: si percepiscono la liberatoria, talvolta inquietante, diversa impressione che fa lo scorrere del tempo, come camminare in una pianura senza orizzonte, ma soprattutto la lontananza da ogni cosa. Niente telefoni, TV, solo un generatore di corrente per l’essenziale, così bisogna lavorare sodo per ciò che si vuole ottenere… e in effetti è accaduto!

Basta ascoltare gli otto tenebrosi minuti di "K/Half Noise" per capire che i ragazzi islandesi hanno dato il massimo, con quell’inizio liturgico che si tuffa vicino a una cascata di galleggianti tastiere, affonda nell’organo di Orri Jónsson e riprende vigore a colpi di click di computer, fino a farsi accarezzare solo alcuni secondi da una cantilena in bilico tra il celestiale e l’oltretomba e godere di un soave violoncello. Il disco non cade mai di tono e a una tormentata "Now There’s That Fear Again" segue la melodia magica di "Faraway Swimmingpool" - ecco di nuovo citata la piscina -, in un turbinio di rumori che sembrano provenire da strumenti giocattolo, simil fisarmoniche, xilofoni e carillon.

L’incanto prosegue arrivando al gioiellino "I Can’t Feel My Hand Any More", "It’s All Right", "Sleep Still", una vera gemma impreziosita da viole e violini suonati con garbo da Helga Þóra Björgvinsdóttir, Anna Hugadóttir e Ingrid Karlsdóttir, incastonata prima della languida title track in cui fa capolino la tromba catacombale di Eiríkur Orri Ólafsson. Pure l’ultima traccia nasce per stupire. Infatti "The Land Between Solar System" coinvolge e affascina per lo stratagemma di usare le voci a grande somiglianza di clarino e sassofono e, per giunta, è un chiaro riferimento a Elly Vilhjálms e Magnús Blöndal Jóhannsson, rispettivamente interprete e compositore di uno dei più bei motivi islandesi, "Sveitin Milli Sanda", in inglese "The Land Between Sands", un brano molto popolare nell’isola.

Innovazione e tradizione, quindi, per un gruppo che creerà altri episodi intriganti nei lavori successivi, concedendosi però forse troppi cambiamenti di formazione e perdendo un poco quel carisma, quell’elogio della stranezza risultato vincente invece in questo progetto. Un progetto che, come anche accennato in un’intervista all’epoca da Smárason “ha portato a creare una musica che non esisteva nemmeno recentemente, pur potendo utilizzare tutte le modernità del caso. Siamo, a volte anche inconsciamente, all’interno di un processo di esplorazione e continuiamo a trovare e sperimentare nuove cose.” Affermazione tosta paragonata all’umiltà del titolo dell’album, “Alla fine non siamo nessuno”, ma questo contrasto è ben evidente nella loro opera, che presenta caratteristiche universali mantenendo la particolarità di un’atmosfera da sogno unica nel panorama ambient/glitch pop.