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REVIEWSLE RECENSIONI
13/04/2023
Kate Davis
Fish Bowl
Abbandonata ormai da anni la scena jazz, Kate Davis torna con un nuovo disco, che ne conferma il talento anche in ambito indie pop rock.

Talvolta, una carriera artistica prende svolte inaspettate, deviando da un percorso già scritto, per imboccarne un altro completamente diverso, sovvertendo aspettative e traiettorie già disegnate. Uno degli esempi più lampanti, è quello di Kate Davis, trentaduenne musicista, nata a West Linn, Oregon, nel febbraio del 1991, che ha iniziato fin da piccola a studiare violino, per poi passare al contrabbasso, suonando entrambi gli strumenti nella Portland Youth Philarmonic. 

Nel 2009, la Davis si è iscritta alla Manhattan School Of Music, dove ha proseguito lo studio del contrabbasso, spostando il suo interesse verso il jazz e il Great American Songbook, iniziando a comporre proprie canzoni. Alunna modello, da subito considerata un astro nascente della musica jazz, nel 2014 ha avuto l’onore di aprire un concerto di Josh Gobran al Mann Music Center di Philadelphia, e, sempre nel 2014, la sua esecuzione di "All About That Bass" di Meghan Trainor, insieme a Scott Bradlee (piano) e Dave Tedeschi (batteria) ha ricevuto su youtube otto milioni di visualizzazioni, consacrandola definitivamente come talentuosa artista emergente, e ottenendo sperticate lodi da parte di stelle del calibro di Herbie Hancock, Ben Folds e Alison Krauss.

Eppure, nonostante la lunga gavetta in ambito jazz e una strada già spianata, all’improvviso qualcosa è cambiato, e la Davis ha virato decisamente verso il rock, pubblicando nel 2019 il suo album d’esordio intitolato Trophy, composto da dodici canzoni perfettamente collocate in ambito indie e che vedono come protagonisti assoluti le chitarre e la bella voce della songwriter dell’Oregon.

Un debutto coi fiocchi, segnato da uno straordinario senso per la melodia e da un approccio lo-fi al suono, che però non è mai povero, grazie ad arrangiamenti misurati ma capaci con poco di avvolgere ogni singolo brano.

Fish Bowl prosegue la narrazione iniziata con Trophy, è indie pop-rock che vede ancora al centro la chitarra, melodie accattivanti e ambientazioni in chiaro scuro attraversate dal filo sottile della malinconia. Un alternarsi di canzoni che abbinano soluzioni compositive non banali a ritornelli che guardano alla classifica, evocando sentori che riportano a Liz Phair, Sharon Van Etten e, perché no, Taylor Swift. Manca forse l’effetto sorpresa del primo album, ma Fish Bowl suona davvero bene, sia nei suoi ammiccamenti harrisoniani (l’iniziale "Monster Mash"), sia quando veste abiti francescani che evocano Elliott Smith ("YoYo" e, nella prima parte, "Call Home"), sia quando esplora estatiche atmosfere dream pop ("Saw Your Starting") o quando sfreccia spingendo il pedale dell’acceleratore dell’eccitazione psichedelica ("People Are Doing").

Rispetto a Trophy tutto appare più coeso e strutturato, ma la sensazione è che l’ingenua esuberanza dell’esordio rendeva tutto, in qualche modo, più affascinante. Per carità, qui non c’è una virgola fuori posto, e canzoni splendide come la malinconica "Consequences" mettono in risalto il talento di un’artista che si inserisce di diritto fra le migliori songwriter indie della sua generazione. Forse, manca solo un po’ di cuore in più, ma probabilmente è solo una personalissima sensazione.