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REVIEWSLE RECENSIONI
14/04/2022
Midlake
For the Sake of the Bethel Woods
I Midlake sono in evidente ottima forma e lo hanno dimostrato con un album forse un po' difficile ad un primo ascolto, ma che, una volta entrati nei loro sentieri sonori, si rivela un piacevole percorso ricco di cuore e di vibranti sensazioni.

Quinto album in carriera e secondo dopo l’abbandono del cantante e autore originario Tim Smith, For the sake of the bethel woods è venuto alla luce a distanza di quasi dieci anni dal predecessore Antiphon.

Il ruolo di vocalist preso dal chitarrista Eric Pulido rende giustizia ad una timbrica eterea e ad una poetica piuttosto leggera senza risultare in compenso priva di carattere o interesse.
Complice una vicinanza sonora che porta la voce a rievocare il compianto Richard Wright (e non solo nel suono quanto nelle linee tematiche), il disco dei texani si piazza da subito sul piano degli ascolti importanti, di qualcuno che ha qualcosa da dire ed ha impiegato tempo e mezzi per scovare il codice migliore per farlo giungere a destinazione.

Il sound è ancora una volta interessantissimo e mette in campo le varie armi usate nella loro discografia: il lato acustico unito felicemente alla ricerca più psichedelica. Come ha ricordato recentemente lo stesso Eric Pulido, il loro sound sguarnito rischiava di essere un’arma a doppio taglio e, complice il lavoro del produttore John Congleton, sono riusciti ad approfondire la stratificazione sonora e renderla non solo un colore quanto un continuo spunto di ispirazione, un tassello fondamentale per giungere ad un passo diverso.

In effetti fa sempre uno strano effetto ascoltare dei suoni “casalinghi” filtrati dalla consapevolezza, dall’essenza di un processo più ampio fino a diventare parte integrante di un messaggio collettivo che torna a prendersi a braccetto con la voce eterea di Eric Pulido, le chitarre acustiche ferrose e la batteria rinchiusa in un suono glaciale quanto un frigorifero, che mi immagino essere stato usato come destinazione di un microfono d’ambiente per la batteria stessa. Magari esagero, ma lasciatemi giocare.

La composizione è alta e si prende i suoi tempi senza dover rispettare chissà quale standard di genere, tessendo trame che uniscono il cantautorato a degli arrangiamenti più azzardati del solito sottofondo lineare cui si sarebbe abituati con quelle linee vocali. I suoni tastieristici veri (e vorrei scriverlo con la V maiuscola) prendono lentamente le redini del gioco, facendosi largo nel restante spazio che sembrava vuoto, ma che in realtà ne era stato educatamente riempito sin dall’inizio del disco.

L’arrangiamento dei brani è particolarmente bello; “Noble”, ad esempio, ha la batteria che ha un modo tutto suo di farla sembrare in un equilibrio precario, mentre la successiva “Gone” sembra un piccolo treno cauto nel prendere la propria finale e definitiva velocità di crociera. C’è quel sottofondo di post-rock che sembra prendersi timidamente uno spazio minuscolo, di tanto in tanto, che sia grazie alla batteria, ai tempi di synth o al mondo delle corde. “Dawning” è probabilmente la migliore del disco e ricorda in quel suo intercedere sospirato l’ultimo Sufjan Stevens, regala un momento di calma alla quale non ci si può sottrarre.

For the sake of the bethel woods è un disco nordico, che si potrebbe definire più del Canada che del Texas, o addirittura, se si volesse azzardare una radice europea, dell’Islanda; un disco freddo e chiaro, sabbioso nel senso più lontano possibile dalla rena estiva.
“Of Desire” chiude l’album e sembra farlo in una maniera per la prima volta improvvisa e sorprendente rispetto a quanto fatto finora: salgono in cattedra le dinamiche, i colpi improvvisi, il crash della batteria, i fusti e le corde che tengono in piedi un ostinato trascinante. Un piano incerto ma solare conclude con tre note e porta a metà di una scalinata verso l’alto, come a lasciarci sospesi, in attesa di un giudizio, di un momento di riposo, e di chiusura.