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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
11/03/2020
Luca Perciballi & Mattia Scappini
Fragile: l’inevitabile caos della libertà
C’è una chitarra che, se serve, deforma la sua natura stessa. E poi c’è la pittura estemporanea che segue e che decide, che accoglie e che documenta, che alla fine mostra quel che ad occhi chiusi si ascolta. Un connubio improvvisativo che oggi si celebra con un’opera nuova dal titolo “Hitting the Angles Again”...

“L’essere senza appiglio è un fertile momento in cui poter estendere le proprie capacità di visione, una possibilità di incontro con il molteplice” (L. Perciballi).

 

Caos. Parola interessante che ormai il commercio del luogo comune la vuole a designare soltanto la strage irrimediabile, l’evoluzione incontrollata del disastro. Eppure nel caos c’è un ordine primigenio di libertà entro il quale non servono artifici industriali per arginare la natura e il suo volere, non esistono stratagemmi computerizzati per controllarne il percorso. In altra guisa: non esistono strumenti per manipolarne la verità. Dunque caos è a suo modo verità.

Fragile è parola altrettanto preziosa. Fragile si resta quando di ciò che percepiamo si perdono abitudini e certezze, quando l’orientamento cade, quando alla vista ogni cosa che davamo per scontato viene a cambiarsi nella forma e nel significato. Fragile è una condizione da cui il mercato di oggi si ostina ad allontanarci perché nella fragilità si fa presto a parlare di libertà, come anche di scoperta, come anche di nuova ricollocazione delle cose e, quindi, di contaminazione. A valle della fragilità accade il moto primo della trasformazione che a suo modo significa evoluzione delle cose. E tutto questo, al mercato fa paura. Almeno così mi piace vederla…

Fragile è anche il moniker con cui prende vita un dialogo perpetuo di arti e di spiritualità lontane nell’apparire ma sempre adese nell’essenza stessa dell’arte come messaggio e manifestazione del sé. Fragile è arte audio-visiva che diviene con caos, con libertà, è esso stesso la verità espressa in un linguaggio che due uomini - due menti, due mani artigiane, due artisti - si vomitano addosso, si cullano dentro, si scambiano come la vita fa con ogni singola esperienza nel nostro vissuto.

Scambio: ecco un’altra parola preziosa. Il perpetuo scambio di Fragile diviene esperienza.

Fragile è un duo ormai attivo da 10 anni. Fragile sono Luca Perciballi (arrangiatore, compositore, ma soprattutto chitarrista e improvvisatore) e Mattia Scappini (pittore, visionario, improvvisatore a suo modo). C’è una chitarra che, se serve, deforma la sua natura stessa. E poi c’è la pittura estemporanea che segue e che decide, che accoglie e che documenta, che alla fine mostra quel che ad occhi chiusi si ascolta. Un connubio improvvisativo che oggi si celebra con un’opera nuova dal titolo “Hitting the Angles Again”, una produzione realizzata in collaborazione con Tempo Reale durante una performance a Firenze, presso il Centro di Ricerca Sonora, in una residenza artistica.

Fragile è questo video sonoro che nel tempo potrebbe reiterarsi all’infinito, che ad un tratto il suono deve prodursi in una soluzione ma che niente in fondo potrebbe avere termine. Ed è un misurarsi con qualcosa che non ha appigli, contaminando se stessi di nuovi angoli e nuove prospettive per mettere in discussione la nostra stessa abitudine. Renderci fragili appunto, renderci caos, metterci a contatto con la verità che non vuol sentire ragioni di comodo.

“Tornare continuamente sui propri passi è un delizioso paradosso per progredire”

(L. Perciballi).

 Clicca sulla foto per ascoltare e vedere "Another Dream In Town"

Ho provato delicatamente a muovermi dentro i non confini di questa esperienza audio-visiva. Ho provato con delicatezza a gestirne il caos con prezioso rispetto della verità. Sono tornato sui miei passi cento volte ma ad ogni nuovo inizio c’era l’infinita mutevolezza delle cose. Ad un certo punto ho pensato bene di fermare ogni altro ritorno.

“Hitting the Angles Again” diviene assieme a me ogni volta…

Non saprei proprio da dove cominciare. Anzi credo che sia proprio questo il valore aggiunto del mio ascolto. Si resta senza appiglio, come su di una piana sconfinata dove lo sguardo non ha ostacoli… e se dovesse averli, scoprirei che sono mutevoli nella forma, nelle dimensioni… ma soprattutto nei significati. Che sia questo il senso ultimo di questo lungo viaggio visionario di “Hitting the Angles Again”?

Non nascondo di vivere una considerazione come questa come un gigantesco complimento, quindi parto con un sentito ringraziamento!

Come giustamente sottolinei, l’essere senza appiglio è un fertile momento in cui poter estendere le proprie capacità di visione, una possibilità di incontro con il molteplice. Credo che un progetto come Fragile disorienti per sua stessa natura un pubblico spesso poco esposto alla contaminazione artistica profonda: ho assistito spesso a performance in cui il dialogo fra arte visiva e suono consisteva in una semplice giustapposizione di due mondi completamente diversi. La spinta che mi ha portato a proporre a Mattia Scappini il progetto ha sempre avuto in nuce l’idea che un duo avesse la necessità di dialogare in modo reale, profondo, in modo da creare un prodotto in cui le due identità fossero mescolate a tal punto da essere inscindibili. La difficoltà iniziale è stata proprio quella di trovare una via di dialogo fra due mezzi espressivi tanto diversi quali la musica e la pittura: i problemi sono tantissimi a partire dall’evidente differenza di trattamento del tempo che, per la musica, è l’equivalente della tela pittorica ma per l’arte visiva tradizionalmente intesa risulta essere un elemento nuovo. La risposta ci è stata suggerita dalle straordinarie lezioni di Paul Klee per il Bauhaus: il pittore/musicista svizzero ci ha suggerito come l’astrazione e la semplificazione del vocabolario fossero la chiave per la comunicazione.

Riducendo agli assoluti di linguaggio i mezzi espressivi di entrambi, siamo riusciti a trovare delle fitte corrispondenze che permettono un dialogo performativo reale. In un certo senso, per quanto detesti i parallelismi tra linguaggio parlato e codice artistico, possiamo dire di aver inventato una nuova grammatica e una nuova semantica che appartengono solo a noi.

Penso che per il fruitore finale, il pubblico, questo si traduca nella già citata mancanza di appigli, di significati codificati, di rassicuranti terreni già battuti: ogni volta Fragile è uguale a sé stesso ma si reinventa proprio perché parla una lingua franca, primigenia da poter essere aperta a qualsiasi tipo di interpretazione.

Perché questo titolo? Colpire gli angoli ancora una volta… in che senso? E dal titolo prima e dalla visione del suono poi, ho come un senso di elevazione spirituale a cui tende il tutto… appunto verso altri angoli, altri punti di vista… fate questo per cercare la vostra elevazione come uomini e come artisti?

Il titolo si riallaccia a quello del primo lavoro di Fragile, “Birth of a square” che abbiamo rilasciato nel 2016 dopo 6 anni di performance in giro per l’Europa.

In quell’occasione ci siamo accorti di star mettendo in scena la vita e la morte di una figura geometrica, una suggestione non intenzionale ma valutata a posteriori guardando il lavoro finito. Nonostante sia io l’autore dei titoli, la mia poetica artistica tende ad evitare i riferimenti diretti e il facile sentimentalismo: comunicazione, visione e drammaturgia sono effetti incontrollati di una serie di processi che tendo a mettere in atto, quasi fossi un tecnico di laboratorio che detta le sue regole minuto per minuto. Il nome Fragile stesso, frutto dell’intuizione di Mattia, lo abbiamo scelto accorgendoci della fragilità del nostro output artistico a posteriori: mentre realizziamo la performance siamo concentrati su elementi strutturali e formali, all’apparenza aridi, che permettono quel mescolamento di significati e suggestioni che hai evidenziato sin dalla prima domanda. L’ascesi passa dalla matematica, nel mio caso!

L’ultimo lavoro vuole affettuosamente ricordare come, dopo dieci anni di operato, siamo ancora qui a percorrere la stessa strada che ci porta verso i vertici, gli angoli delle figure geometriche che caratterizzano tutta la produzione pittorica di Mattia Scappini. Per noi Fragile è un’opera unica, un continuum che si rinnova ogni volta da dieci anni a questa parte; non vogliamo comunicare niente se non quello che i costitutivi stessi del lavoro possono dire. Tornare continuamente sui propri passi è un delizioso paradosso per progredire.

Parliamo della dimensione di improvvisazione che governa tutto ciò che accade. L’ascolto e la visione, appoggiandosi a questa dimensione, si traducono in un violento bisogno di equilibrio. D’improvviso mi trovo senza punti di appoggio, senza segreti e regole del gioco. Sono proiettato in un infinito di sillogismi e di visioni che accadono senza alcuna prevedibilità. Fragile per me è tutto questo… si diventa fragili all’ascolto e alla visione… ma è una fragilità personale e non oggettiva… che ne pensate?

Riallacciandomi a quanto detto nella risposta precedente, la fragilità è una componente fondamentale di quello che produciamo in questo duo; sapere che anche il pubblico si sente messo a nudo, come ci viene spesso fatto notare, è commovente e bellissimo. Ricordo ancora una performance in cui una spettatrice si è avvicinata chiedendo soltanto “Perché? È bellissimo ma folle!” : un atteggiamento come questo evidenzia come ci si senta spiazzati e senza riferimenti di fronte ad un’opera come questa. Con la tua domanda stai attribuendo questa sensazione alla dimensione improvvisativa ma io la attribuirei piuttosto alla liquidità strutturale del progetto. Una performance di Fragile è molto più ordinata di quanto si pensi: noi abbiamo delle strutture temporali da rispettare, ricche anche di paletti strutturali, specie sui materiali da usare: nella sezione di “ritmo” sappiamo già che ci concentreremo su determinati parametri in modo esclusivo, per un determinato periodo di tempo e arrivando ad un preciso punto di incontro. Quello che cambia ogni volta è la definizione del materiale prodotto: quanti modi diversi esistono di concepire un punto? Da questo tipo di limitazioni nasce la fertilità del processo produttivo, a mio avviso la linfa vitale di tutto quello che faccio.

Improvvisazione… come incontro e dialogo tra le arti di due individualità separate e distinte. Nel dialogo chi chiede e chi risponde? Nell’incontro chi si muove verso? Insomma: nella realizzazione del tutto, chi segue chi?

Il duo nasce con la volontà di dialogare, il primo e penoso anno è stato un lungo percorso di avvicinamento verso la possibilità di farlo, verso l’acuire la capacità di ascolto distribuita su due sensi diversi. Non posso che dire che la responsabilità sia divisa al 50%! Mattia ha dovuto adattarsi di più perché non abituato alla dimensione performativa che appartiene sicuramente di più al mio mezzo espressivo e alla mia natura artistica di musicista, compositore e soprattutto improvvisatore, ma spesso e volentieri è lui a dettare le modalità di azione della performance allentando la tensione del tratto o costruendo un orizzonte in modo imprevisto. Quando sono io in cattedra a suggerire andamenti con i suoni, è meraviglioso vedere come un pittore risponda così velocemente agli stimoli che gli vengono dati. Uno dei miei mentori, Lawrence Butch Morris, era solito parlare di “conduzione di energia”: un anello di scambio, decidete voi a che livello, molto simile a quello descritto dalla fisica classica che si instaura fra i performer, i mezzi impiegati e il pubblico. Questa è la ragione principale per cui un progetto del genere può esistere solo in una forma a metà tra scrittura ed estemporeizzazione, la necessità ultima di scambio di energia (vi prego intendetela in senso lato e non come superficialismi New Age) per portare in vita i concetti.

Voglio levarmi subito l’unico sassolino dalle scarpe. E le mie sono scarpe classiche, forse proletarie. C’è qualcosa che non ho saputo farmi piacere, forse banalmente non ho saputo come codificare. Attorno al minuto 10.39, le immagini dialogano con un ostinato di suono che arriva a tagliare ogni pensiero e ogni equilibrio. Fino a quel momento avevo fatto pace con la dimensione dell’improvvisazione ma in questo preciso frangente non posso pensare che questo gioco di suoni e di colori, così disposti in un timing preciso e repentino, sia improvvisato… o sbaglio? E se non sbaglio… perché questa scelta che trovo fuori tema dal tutto? Il suono come l’immagine… ho come l’impressione che qui sia manipolato artificiosamente, il che non è coerente con l’incontro degli uomini…

Ti faccio in complimenti per l’attenta analisi che non ti ha fatto sfuggire un elemento estraneo! L’introduzione di un simile elemento di post produzione (tutto il lavoro è eseguito dal vivo con minimi interventi sul mix del suono e sul colore dell’immagine che è stata velocizzata di un paio di frame al secondo) è solo un piccolo esperimento che ci siamo concessi: cogliendo l’occasione di lavorare per un centro di ricerca prestigioso come Tempo Reale, ci siamo presi il lusso di sperimentare qualche novità. L’inserimento di elementi produttivi come quei piccoli inserti di disturbo sarà preludio ad una fase collaterale del progetto che prevederà la realizzazione di video installazioni interamente composte: una direzione completamente differente che sarà un diverso percorso produttivo della collaborazione tra me e Mattia.

Sono contento come sia subito evidente l’estraneità di questi innocui secondi di post produzione rispetto al lavoro: indicano che il prodotto è concettualmente coerente e che le nostre capacità comunicative sono di buon livello!

L’evoluzione l’ho vissuta così: il nucleo scuro dell’incomprensione intima e personale che pian piano dà spazio allo spazio aperto, il suono si rilassa e non lascia scampo alla pace e alla contemplazione… si dilania d’improvviso tutto grazie alla (de)costruzione industriale, l’uomo e la sua (d)istruzione… e di nuovo si torna alla pace e alla contemplazione dello spazio vuoto, che è collina e che è campo aperto. Come l’ho letta? Ho pensato che in qualsiasi dimensione estetica si viva, è possibile riconquistare la propria pace, la propria verità, quella dell’essere umano come elemento della natura e non del cemento. A voi la palla…

Interessante lettura: ci tengo a ribadire che noi, così immersi in concetti astratti, non abbiamo pensato a nessun elemento di questo tipo ma siamo aperti ad accogliere con curiosità ogni suggestione. Penso che l’osservare come la combinatoria di elementi cesellati in modo esclusivamente artigianale produca suggestioni di vario tipo non dirette dall’artista stesso sia il cardine della mia opera come creativo. Ti faccio notare che nella “storia” che hai descritto c’è un percorso drammaturgico di densità di elementi: un processo che da zero arriva ad un culmine e poi ritorna al valore di partenza, seppur in un luogo diverso. Questa struttura è comune a moltissime forme artistiche più o meno antiche: la forma sonata, l’esecuzione jazzistica, il romanzo proustiano. Penso che la conciliazione dell’essere umano con la natura sia innanzitutto la conquista di un luogo mentale e non di un rapporto fisico con l’ambiente: un evento che può accadere o meno nella vita delle persone.

Noi siamo costretti a finire un processo perché l’immagine può permanere all’infinito ma il suono deve morire nel silenzio. La speranza è aver agevolato quella conciliazione di cui sopra con il nostro processo

Non c’è colore. Per quanto il bianco e il nero sono colori. Dunque perché questa scelta? Pura soluzione tecnica per gli effetti o c’è una simbologia dietro?

Tengo a precisare che Mattia dipinge ad olio su di una tavoletta grafica autocostruita: in aggiunta è un artista dalle capacità tecniche e artigianali sconfinate; la gestione del colore sarebbe stata possibile per lui.

La scelta di non usarlo riflette la nostra volontà di concentrarci sugli assoluti di linguaggio: il colore rimanda ad infiniti altri significati di cui il nostro lavoro non necessita. Ci concentriamo sulla struttura rendendo la parte visiva più un argomento scultoreo/plastico che pittorico o grafico. Luce e ombra rimandano sia alla scultura sia al rapporto tra figura e sfondo che è centrale nel lavoro di Mattia.

Il suono della chitarra sparisce. Diviene altro. Come le immagini. Sono forme mutevoli. Nella mutazione c’è il significato che è comunque legato solo al momento presente. La mutazione arriva, il momento successivo cambia i contorni… cambiano i significati… ne parlavo con Niccolò Fabi per il suo disco: l’arte è dunque sinonimo di movimento e di mutazione secondo voi?

Qualsiasi opera d’arte è dialogica; per continuare ad esserlo nei secoli deve avere in sé stessa la possibilità di mutare. Per quale ragione continuiamo ad eseguire la musica di Mozart, per altro in contesti per cui non è mai stata concepita? Al di là della letteratura che appesta ogni fenomeno storicizzato non possiamo non riconoscere a opere come quella la capacità di adattarsi ai tempi, di trovare una collocazione sempre e comunque; in poche parole di permanere, un concetto che ha del sacro se applicato ad “oggetti” artificiali.

Il suono della chitarra diviene altro che la chitarra, di base, non è. L’elettronica trasforma tutto, anche una chitarra. A questo punto mi chiedo: perché non ricorrere direttamente ai computer? Forse perché così facendo l’orizzonte di opportunità diventerebbe infinito? Ricordate “La leggenda del pianista sull’oceano”? T.D. Lemon 900 non scese mai dalla nave perché al di là della scaletta il mondo era infinito. E nell’infinito nulla ha possibilità di crearsi…

Allo stesso modo in cui Mattia esclude il colore io escludo la mediazione eccessiva della tecnologia. Fragile è un progetto che si vanta con orgoglio della sua parte artigianale, un filo modernista e reazionaria se vuoi! Il concetto di analogico ci è molto caro ed è emerso come punto di orgoglio in moltissime discussioni a tarda notte fra di noi. Io ho necessità di continuare a suonare il mio strumento anche senza che esso si comporti come tale: la chitarra DEVE trasfigurarsi in un progetto del genere, ma io ho comunque bisogno di averla tra le mani e di girare delle manopole per produrre le cose! Altrimenti vanificherei tutto l’aspetto performativo del progetto; non che i computer non possano essere performativi ma sicuramente io lo sarei di meno con i software: come diceva McLuhan il messaggio è nel mezzo. Gli strumenti che utilizzi influenzano inevitabilmente il tuo modo di pensare e vorrei evitare le costrizioni che ho individuato nell’elettronica. La uso volentieri in altri contesti ma non in uno “fragile” come questo!

Eppure la pace a cui tende la composizione, per me sempre, è sinonimo di arrivo, di stasi, di quiete… ed è anche vero che l’arrivo è il momento in cui termina l’opera d’arte. Che l’arte dunque per voi significhi tutt’altro che pace?

Credo fermamente che la vera opera d’arte sia una forma di mistica, una delle poche sopravvissute nella nostra cultura. Quando riesce bene possiede un carattere di trascendenza, di superamento dei limiti, per cui penso non possa finire, non abbia un reale termine. Se a “pace” diamo un significato molto semplice di quiete e stasi, l’opera d’arte non può significare pace, pena la sua morte. In un senso più ampio esistono esperienze più o meno pacificatorie, semmai.

Devo mettere un freno alle mie domande. In una società così estetica ed effimera in cui la comprensione non richiede analisi e ragionamento, in cui dal pubblico arriva solo automatismo celebrale… come dialoga e con chi una composizione come “Hitting the Angles Again”?

Sono molto preoccupato della situazione culturale odierna, così minata da un modo di pensare che trasforma le persone in consumatori, veri e propri fruitori di esperienze a pagamento. È un pensiero che mi tormenta profondamente ma che viene spesso sconfitto dal fatto che esistono ancora reazioni a quello che facciamo. Mancano contesti sociali, cultura di base, risorse economiche e morali ma qualcuno che si assume la fatica di ascoltare esiste sempre. Questo stabilisce una forma di dialogo sufficiente all’esistenza di esperienze come la nostra.

Chiudo, promesso. Ho trovato che in tutta questa composizione esiste un fortissimo peso sociale. Ci ho rivisto le nostre giornate e il nostro decadentismo. Ci ho ritrovato dentro la povertà con cui ci stiamo arricchendo. Ma ci ho visto anche la speranza… fragile speranza… ma in fondo c’è. Non è così?

Non ho mai pensato a me o a Mattia come cosiddetti “artisti impegnati”, non penso vi sia un diretto contenuto sociale o politico nella nostra musica. Penso però che la figura stessa dell’artista, parola tanto abusata da perdere il suo significato positivo, del promotore del pensiero in forma artistica, non tecnocratica sia una figura di grande valenza sociale. Il solo fatto di portare avanti un’attività che ha sempre meno spazio all’interno della società, con senso del dovere e abnegazione, penso sia un’attività di resistenza culturale coraggiosa ed importante. Aiutare la gente a pensare creando, nel contempo, un prodotto senza fini diretti, non vendibile, inaccettabile dal punto di vista del mercato di massa sono quelle che io definisco come le missioni di chi fa arte. Senza un filo di speranza come si può anche solo avere la forza di abbracciare un percorso tanto faticoso e impervio?

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