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REVIEWSLE RECENSIONI
03/07/2020
LA Priest
Gene
Tutto parte dal battito elettrico della macchina, attorno alla quale il musicista costruisce melodie esili che non germogliano in un solo colpo, ma dischiudono boccioli a ogni ascolto, dai petali colorati non sempre in modo acceso, e delicatamente profumati.
di Andrea C. Soncini

Incapace di trovare la sua vera indentità, LA Priest – che sì è firmato Sam Eastgate, Sam Dust e ha fatto parte dei Soft Hair – completa il suo secondo disco intitolato Gene a distanza di quattro anni da Inji. Come Peter Gabriel adora la sintesi dei titoli di due lettere, LA Priest si sofferma sulle parole da quattro.
Gene è il nome dato dal musicista a una drum machine che ha impiegato due anni per dare alla luce perfettamente funzionante. Una macchina che ne è orgoglio e feticcio, messa non solo al centro della copertina ma anche del progetto sonoro. Si potrebbe anzi dire che si tratta del cuore che mantiene in vita il disco: tutto parte dal battito elettrico della macchina, attorno alla quale il musicista costruisce melodie esili che non germogliano in un solo colpo, ma dischiudono boccioli a ogni ascolto, dai petali colorati non sempre in modo acceso, e delicatamente profumati. Dettagli che fanno la differenza. Quelli di un disco curato nei particolari che, a volere essere pignoli, di questi tempi è ciò che manca alla gran parte della musica: la grana fina.

Beginning e What Moves, che esce come singolo, pagano tributo a Prince in modo quasi imbarazzante, ma già dal breve strumentale Peace Lily che prelude Open My Eyes, i brani cominciano ad assumere quella personalità, come detto, fatta di architetture sofisticate che godono talvolta a farsi ostentate o al contrario si sottraggono all’evidenza per farsi rincorrere. Sudden Thing è il primo brano che si dipana sotto un cielo coperto: la pioggia, il tuono, si sentono davvero e sconfinano in Monochrome, un confronto dialettico, rovente, tra analogico e digitale, percussivo e di tastiere. Prima che What Do You See paghi altro palese tributo (ai 10cc di Godley & Cream), e Kissing of the Weeds e Black Smoke riprendano il gioco colto delle infinite possibilità dei suoni inesistenti in natura (e dunque creati in studio/laboratorio). Con un finale, Ain’t No Love Affair, come tessera conclusiva di un lavoro che trova compimento quasi da ciclo naturale: il frivolo inizio è il primo passo di un romanzo sonoro di formazione il cui ultimo capitolo è simbolo della maturazione.

Benchè LA Priest abbia posto l’accento sulla sua creatura generatrice di ritmo, Gene ha un respiro molto più ampio, e caldo, fatto soprattutto di chitarre e tastiere. Di creatività e voglia di articolare un discorso personale e compiutamente eccentrico. Vanno solo superati i primi 10 minuti, quelli concessi alla platea per ragioni commerciali (che volenti o nolenti occorre conciliare, e fino a un certo punto vanno compresi). Poi Gene affronta un percorso che apre a un mondo di curiosità sonore da piccolo alchimista alla ricerca della pietra filosofale. Capace di trasformare ogni cosa che suona. Non in oro, solido, ma in qualcosa di prezioso oltre il valore venale, apprezzabile per il solo fatto che riluce, che lancia bagliori, che attira l’attenzione, e crea stupore. Proprio come può risultare prezioso un raggio di sole dopo una settimana di scrosci. Cosa che Gene riesce a fare spesso. E l’oro lasciamolo alla categoria dei beni rifugio. A chi nella vita ha altre priorità, non certo la musica.


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