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REVIEWSLE RECENSIONI
07/10/2019
Nick Cave and The Bad Seeds
Ghosteen
L’uscita di “Ghosteen”, annunciata quasi accidentalmente una settimana fa, coglie di sorpresa. Il Poeta è tornato e intende chiudere la trilogia iniziata nel 2013 di cui fanno parte i precedenti “Push The Sky Away” e “Skeleton Tree”. Abbandonato il “noise” di quest’ultimo, Nick Cave rivalorizza la melodia e approda - come se non gli bastasse – ad un ulteriore minimalismo.

Pianoforte, voce e sintetizzatori: ecco gli ingredienti chiave di un lavoro in cui il lirismo di Cave acquista, ancora più di altre volte, un ruolo predominante. Ma la voce di Cave non è più carnale e nemmeno esasperatamente profetica come spesso ci ha voluto fare credere: all’età non scontata di 62 anni, l’artista australiano canta in modo pieno e sincero. Questa volta, lo sfondo è un bosco incantato, ben rappresentato dal gusto kitsch della copertina. Principi, cavalli bianchi, galeoni … ma anche Elvis Presley e un treno delle 5.30. Che succede? Realtà e finzione si fondono in un nuovo lessico fantastico che s’inerpica sulle colonne di una netta struttura narrativa: il disco si divide in due parti, la prima “the children” e la seconda “their parents”. Inevitabile, allora, non fare riferimento ad un elemento biografico che ha recentemente scosso nel profondo l’artista, ovvero, la morte del figlio Arthur, appena sedicenne. Ecco svelato il titolo del disco, Ghosteen, un adolescente fantasma la cui ombra aleggia di canzone in canzone.

Strettamente legata al lutto è Waiting for you, una testimonianza umana di incommensurabile tristezza che, tuttavia, lascia intravedere uno spiraglio di luce: la fede in un incontro futuro. Forse questo avverrà proprio nel cuore di una radura magica, nella Sun Forest in cui Cave accenna all’universalità del dolore. Nutrito da cori, il tono salmico di Cave predica la solidarietà in questa esperienza e la possibilità di andare avanti attraverso la musica: “I think they're singing to be free / I think they've gathered here for me / To be beside me / Look for me, look for me / I am beside you, you are beside me” (Ghosteen Speaks). E l’affetto rappresenta, ancora una volta, un porto sicuro nel deserto dell’arabica Leviathan: “I love my baby / and my baby loves me”.

Ma la morte palpita ancora nell’aria e la seconda parte del disco avrà tinte più fosche, legate al lato più oscuro della rielaborazione del lutto. Fireflies, il più corto dei tre pezzi, ci introduce nuovamente in una foresta, questa volta più ostile come il buon vecchio violino di Warren Ellis ci suggerisce, e la scena si apre con uno degli esempi di dolore più emblematici della storia: “Jesus lying in his mother’s arms / Is a photon released from a dying star / We move through?the?forest at night / The?sky is full of momentary light / And?everything we need is just too far”. I genitori sono impotenti di fronte alla disgrazia e arrivano a realizzare che “We are here and you are where you are”. Il passo incipiente del padre, scandito dal pianoforte, non si ferma qui, amareggiato: “It’s a long way to find peace of mind / I’m just waiting now for my time to come”. Cave sa che troverà, prima o poi, la pace interiore al pari di tutti gli altri uomini che, ogni giorno, soffrono parimente. E questo slancio verso il futuro lo canta laddove la voce si affievolisce e acquista un’altra intensità, come mai s’era sentito prima.

“Ghosteen” è la fine di una delle fasi artistiche più belle che i Bad Seeds hanno avuto negli ultimi quindici anni e non si tratta di capolinea definitivo, anzi: la band australiana ha seminato qualcosa di nuovo e intrigante. Nell’attesa che fiorisca, godiamoci i frutti maturi di una band eccezionale.


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