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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
27/06/2022
Le interviste di Loudd
Gian Piero Alloisio. Volevo fare l'autore.
Chiunque sia innamorato della musica cantautorale italiana ha incrociato, anche inconsapevolmente, Gian Piero Alloisio: istrionico e geniale artista che ha legato il suo nome a Francesco Guccini, Claudio Lolli, Ombretta Colli e Giorgio Gaber, senza dimenticare Fabrizio De André. Solo alcuni fra i tanti che hanno accompagnato la carriera di un uomo speciale, capace di guardare avanti senza dimenticare ciò che era veramente e che ora ha contribuito a scoprire autori di grande successo come Federica Abbate, Emanuele Dabbono e Alessandro La Cava o artisti come Willie Peyote. Oggi è l’occasione per fare un excursus storico di un personaggio che, parafrasando Faber, si è costantemente mosso “in direzione ostinata e contraria”. E i fatti, a lungo andare, gli hanno dato ragione.

Conosco la discografia di Gian Piero Alloisio da quando ho 10 anni, il suo linguaggio è stato un vocabolario attraverso cui intravedere la storia italiana degli anni ‘70-‘80-‘90 nelle sue pieghe più ambigue, profonde e fragili. L’ho poi incontrato nel 2007 in occasione del Festival Gaber a Camaiore, e ho continuato a seguirlo nelle tournée teatrali e per le presentazioni dei suoi dischi.

Gian Piero, infatti, non solo ha attraversato 50 anni della vita artistica e musicale del nostro paese come autore di canzoni memorabili quali "Venezia" e "La strana famiglia", ma è stato anche direttore del carnevale di Viareggio, animatore di esperienze artistiche come il Festival Internazionale dei Templari e il Festival Pop della Resistenza, e di recente ha ideato (e dirige tuttora) Genova per voi, il talent per autori e autrici musicali prodotto da ATID in collaborazione con Universal che ha riportato Genova a far parlare di sé. È quindi dal suo osservatorio privilegiato che rileggiamo quanto e come si sia trasformato il panorama culturale italiano.

Gian Piero e Simonetta (Cerrini, sua moglie e compagna di attività artistiche, n.d.r.) accolgono me e Daniele nella loro luminosa casa di Ovada, in un pomeriggio di primavera, con la consueta familiare informalità. Mentre Gian Piero ripercorre la sua carriera artistica e autoriale, Simonetta dà forma e colori alle parole riempiendo il tavolo di foto, manifesti, libri e dischi. Caffè alla mano, possiamo cominciare.

 

 

 

Tutto ha inizio nella periferia genovese del quartiere di Oregina, come ti avvicini alla musica e come si articolano le tue prime esperienze artistiche?

A 12 anni lo zio Luciano, sfuggito al campo di concentramento di Mauthausen gettandosi dal treno in corsa con un amico, unici sopravvissuti del battaglione dei cavalleggeri del Monferrato di stanza a Voghera, mi regala la chitarra Eco con corde di ferro durissime. A 14 anni rubo un motorino con un amico e mio papà, il partigiano Cencio di Giustizia e Libertà, che aveva riunito il tessuto sociale dilaniato dalla guerra intorno a una rivista musicale, scrive lo spettacolo Ave Cesare, motorini te salutant sui falsi miti del consumismo e la necessità di solidarietà sociale. Nel quartiere, in quegli anni, si fa una scelta di impegno politico e noi siamo i proletari del comitato di quartiere che lottano per occupare le case, avere l'autobus, un negozio di alimentari o l'assistenza medica, quelli che chiedono la riduzione delle bollette telefoniche: di fatto siamo sia soggetto che oggetto dell'atto politico. Quando oggi i rapper dicono "un rapper che non si occupa del suo quartiere non è un vero rapper" mi sembra che ci abbiano letto nel pensiero.

 

Nasce in questo contesto il gruppo Teatro quartiere di Oregina, premessa per l'Assemblea Musicale e Teatrale?

Sì, con loro scrivevo i testi delle canzoni e a questa formazione iniziale partecipa anche Lorenzo Beccati (comico, poi co-ideatore di Striscia la notizia e autore di Drive In n.d.r.). Il clima è tra chitarre elettriche, disimpegno assoluto e canzoni con un certo impegno perché avevamo dentro tutto contemporaneamente: dal pop più pop, al rock più rock, all'impegno più impegno.

Al quarto anno di liceo mollo la scuola e vado a suonare nelle balere con i Raptus, non perché fossi un gran chitarrista ma perché cantavo e visto che si suonava 4/5 ore a sera il cantante ufficiale non ce la faceva da solo. All'epoca si suonava tanto, si faceva tutto tanto, per fortuna. Anche nei periodi di magra prendevo più di mio padre che era impiegato all'INPS.

Nel 1976 con Gianni Martini (poi chitarrista di Giorgio Gaber), Gino Ulivi, Alberto Canepa e Bruno Biggi arriviamo a costruire l'Assemblea Musicale Teatrale e a quel punto eravamo tutti professionisti perché vivevamo di musica già da tempo. Devi immaginare che allora i service non c'erano, montavi le casse che trovavi e si sentiva sempre malissimo: erano tutti sordi i musicisti di allora (ride).

 

Il 1976 è l’anno di esordio del gruppo con il disco Dietro le sbarre

Iniziamo con un album-spettacolo che ha subito un riscontro, pensa che Dario Fo apprezza molto la canzone "L'impotente" e mi chiama dai bagni di Riccione per complimentarsi. Ma anche "La nostra storia" è una canzone che è tornata nel tempo rieditata ancora nel 2001 durante il G8 di Genova.

La composizione del disco è molto varia: ci sono i cori di ricerca popolare, la mia musica ma anche gli arrangiamenti di Gianni Martini che danno un'impostazione di rock progressive molto definita. L'album è notato dalla casa discografica I Dischi dello Zodiaco che lo distribuisce in tutta Italia in una nuova edizione e con nuova copertina.

Oggi tutto questo sarebbe "pazzesco", allora era normale il fatto che Fo, l'autore italiano più rappresentato al mondo, ti contattasse se gli piaceva una cosa. Soprattutto l'atteggiamento era diverso: da un lato c'era un senso del divismo cento volte superiore perché quando Mina girava per strada si bloccavano le città ma non c'era lo star system. Per esempio, nessuno di noi pensava "faccio questo così divento famoso”, piuttosto dicevamo “faccio questo perché ho voglia di fare questo". Oggi invece è molto presente la finalizzazione di ogni gesto e questo atteggiamento impedisce di crescere perché, a mio avviso, si cresce - anche artisticamente - quando si fa ciò che si vuole e lo si confronta con gli altri.

 

 

Da lì a Guccini il passo è breve?

Avevo saputo da Raffaele Niri, caporedattore cultura del quotidiano La Repubblica, che Guccini si trovava a Pavullo nel Frignano con i Viulan, un gruppo di ricerca popolare, nella casa di una vecchia contadina per registrare i canti a rischio di estinzione. Allora parto con Piero Spinelli per portare a Guccini sia una copia di Dietro le sbarre che una cassettina con i brani del secondo album Marilyn. Allora eravamo forti nel circuito alternativo, pensa che facevamo anche 100-120 concerti l'anno a qualsiasi condizione, ospitati dai compagni, non ho mai dormito in albergo per 10 anni.

Guccini mi lascia in sospeso per un anno finché mi chiama per dire che avrebbe prodotto il disco. Da quel momento, inizia con lui una collaborazione lunga e costante, tanto che scriviamo pezzi l’uno per l’altro in forme anche indistinguibili, tanto per fare un esempio Lager ha una forma narrativa quasi parlata perché Guccini la scrive pensando proprio alla componente teatrale dell’Assemblea.

 

Con Marilyn siamo ancora nell’ambito della canzone d’impegno che si pone in relazione con la contemporaneità interpretandola (penso a America, La città futura) ma anche con un certo pubblico militante (come in Tutto è spettacolo, Ribellarsi è giusto) e ancora a temi sociali come la tossicodipendenza (Le condoglianze). Come hai vissuto quel periodo?

Marilyn lo registriamo a Bologna nel '77, nel momento in cui esplode tutto e, in un certo senso, ci sono anche i germi del tutto che finirà perché cominciano a delinearsi l'ala più violenta e quella creativa del movimento. Vinceranno i violenti, però noi ci siamo ancora e loro no, perché i loro contenuti non è che fossero molto apprezzati. D’altra parte, abbiamo patito molto il fatto di essere creativi, di quartiere, perché poi la libertà la paghi e hai contro tutti: i violenti e la polizia.

Dico tutto questo perché ho vissuto quel periodo in prima persona – sia gli eventi più potenti, comunitari, che quelli distruttivi – e mi rendo conto che quel mondo viene ancora raccontato male: quando definiscono “bui” gli anni '70 rispondo che senza quel fermento non ci sarebbero stati De André, Guccini, Bennato, Battiato ma neanche Baglioni, Mogol e Battisti, l’etichetta Ascolto di Caterina Caselli e Bertoli.

 

Ascoltandoti, la sensazione è che, mentre oggi siamo abituati a ragionare per categorie (musica impegnata, leggera, giovanile, datata), quando hai cominciato ci fosse molto dialogo tra autori e stili, meno ideologia di quanto non si tenda a pensare.

Era un mondo meraviglioso dove un manager come Renzo Fantini (produttore di autori come Conte, Guccini, Capossela, n.d.r.) poteva dirti, scherzando, “fate incazzare Francesco (Guccini) altrimenti non scrive, deve soffrire per scrivere!”. Guccini, d'altra parte, diceva “scrivo quando voglio” e ha rinunciato a fortune per non pubblicare un disco l’anno.

Era quello un mondo barbonesco e vivo dove scrivevi e suonavi perché avevi sia qualcuno che ti ascoltava che altri da emulare, sempre in un'ottica di dialogo e relazione. Addirittura, i produttori si ponevano in un'ottica di relazione come Ennio Melis dell'RCA che continuava a produrre, senza rientrare con le spese, i dischi di Piero Ciampi; tutti gli dicevano "hai Mogol e Battisti, la PFM, Dalla, Baglioni, perché spendi per Ciampi?" e lui rispondeva "perché nessuno lo compra ma gli altri, musicisti, cantanti, autori, lo conoscono, lo ascoltano e ci devono fare i conti". Perché bisogna sempre ricordare che gli artisti scrivono sul collega, non sulla gente: cosa vuole la gente non si sa ma cosa fanno i colleghi lo puoi conoscere e su quello ti misuri, come stile, voce, sensibilità. 

 

 

 

Nel 1979 esce Il sogno di Alice, il più bello, tra i dischi dell’Assemblea, il più compiuto, e quello che richiede un investimento maggiore. La copertina onirica, proposta da EMI, ritrae una ragazza vista dalla cornice di una finestra…

È un album dove dichiariamo la fine del socialismo nei paesi socialisti come scrivo ne "La fattoria degli animali" o nei "Fiascheggiatori", che sono quelli che al bar dicono "han fatto bene i brigatisti” e poi si bevono il bianchetto (ride). La canzone dice che la rivoluzione non significa più nulla se non troviamo qualcosa che possa sopravvivere ai "mostri datati d'inchiostro e di colla dei vecchi manifesti come le date d'ottobre che perdono sempre più il senso". Come anche la canzone "Non fateci conto" che dice "mia sorella non è con lo stato né con le BR e non è vero che non ha una posizione, se ne frega di questo e di quelle e c'ha ragione", perché mia sorella (Roberta Alloisio, cantautrice, attrice e interprete prematuramente scomparsa nel 2017, n.d.r.) era una ragazza di periferia e c'aveva sempre ragione di fregarsene di quelli che parlano e non fanno nulla; giustamente, si chiedeva “perché devo parteggiare? Se non fai niente per me (non mi porti l'autobus, non mi dai l'assistenza sanitaria o una bottega di alimentari) io non faccio niente per te, altrimenti impazzisco”.

Noi in questo album non rinneghiamo nessuno, perché la battaglia non l'abbiamo mollata, ma soprattutto non rinneghiamo noi stessi quando cantiamo "Dietro alle nuove razze armate tu teorizza quel che vuoi e in ogni modo non contare su di noi", più chiaro di così! E lo cantavamo con la maschera dei fratelli Marx, facendo un balletto con i trampolieri. Insomma, mentre gli altri impugnavano le bandiere rosse, noi eravamo sempre noi (ride).

Questi testi, puoi immaginarlo, per un certo periodo mi hanno allontanato non solo dal circuito discografico ma anche dal pubblico di riferimento, per esempio quando ho cantato "La fattoria degli animali" alla sala Chiamata del porto a Genova non ha applaudito nessuno. Eppure io avevo visto che stava cadendo il comunismo con dieci anni di anticipo e adesso posso dire che sono stato un profeta. 

 

In quel periodo sei una presenza fissa al club Tenco di Amilcare Rambaldi, la mente che ha creato la "canzone d'autore" come fenomeno collettivo e culturale, e Caterina Caselli produce il tuo disco Dovevo fare del cinema, con pezzi intramontabili quali "Gulliver", "Parole", "Il dilemma". Ma gli ‘80 sono anche gli anni in cui entri a far parte della compagnia di Giorgio Gaber con lo spettacolo Ultimi viaggi di Gulliver (firmato da Alloisio, Gaber, Guccini e Luporini), prodotto dal Teatro Carcano di Milano. Come si sviluppa quel progetto?

Si trattava di un teatro canzone di gruppo. Facemmo 113 date che allora considerammo un po' pochine (ride). Questo spettacolo diventa un disco di ricerca di altro tipo che consiste "nell'amare il nemico", come viene fuori in un pezzo come "La Gaia Scienza", nel senso che in un periodo in cui dominava in Italia la cultura marxista si apre la possibilità di nuove vedute con Roberto Calasso (che verrà a vedere tutti i miei spettacoli) e la pubblicazione per Adelphi degli impubblicabili: Nietzsche, Celine, chiamiamoli “i temuti” che hanno sempre ragione perché un artista ha sempre ragione.

 

Gli anni ’80 potremmo quindi definirli “la stagione del teatro canzone” e il periodo di una lunga e proficua relazione professionale e di amicizia con Ombretta Colli, Sandro Luporini e Giorgio Gaber. Cos’ha significato per te il teatro canzone e la vicinanza a un artista come Gaber?

Giorgio non dipendeva da nessuno, al massimo era partner di qualcuno più grosso, e la casa discografica distribuiva gli album, però era tutto suo, non aveva editori musicali, si teneva tutto e ho scoperto, grazie a lui, che se non distribuisci soldi a Tizio e Caio e tieni tutto hai meno bisogno di venderti perché guadagni di più. Insomma, ho visto con lui il tocco della libertà: ti fai un culo pazzesco, devi conoscere tutto (produzione, scrittura, realizzazione, distribuzione), non puoi mai delegare ma, in compenso, fai quello che vuoi.

Scrivo per Ombretta Colli Una donna tutta sbagliata, tra i primi spettacoli prodotti da Gaber con la dicitura "teatro canzone". Per ragioni fortuite finisce al Teatro Manzoni di Milano ed è un trionfo: qui farà un mese di “tutto esaurito”, poi andrà un altro mese al Teatro Sistina a Roma, e resterà in tour per 2 anni diventando anche uno sceneggiato RAI. Insieme facciamo tutti i sequel di Ombretta (Aiuto! Sono una donna di successo e Donne in amore) e anche il primo Brachetti In principio era Arturo. In attesa che maturino i diritti SIAE, mi mantengo cantando in tour con Claudio Lolli, quando reggevano ancora il circuito Arci, le feste dell'unità e soprattutto il mitico produttore Renzo Fantini, che ha sempre salvato i suoi autori. 

 

 

A un certo punto il Teatro della Tosse di Tonino Conte ti commissiona lo spettacolo Il mistero dei tarocchi; nel frattempo continui a scrivere per Gaber, lavori a Doktor Frankenstein Junior con la compagnia di Geppy Gleijeses e inizia la collaborazione artistica con tua sorella Roberta. Di fatto, continui a mescolare sacro e profano, pop e impegno. Come tieni insieme tutto?

Diciamo che c’è un certo “intasamento”; gli anni '90 non sono fortissimi sul piano musicale ma teatralmente straripano di attività. In quel periodo contemporaneamente in giro per l’Italia avevo 5 spettacoli di cui ero autore. Addirittura, arrivavano talmente tanti soldi dalla prosa che mi dimenticavo di depositare in SIAE le canzoni degli spettacoli e quando Universal mi ha recuperato lo storico sono venuti fuori decine di milioni di lire di diritti d'autore.

Allo stesso tempo, sentivo un po' di diffidenza verso quel tipo di vita e la società che mi stava portando lontano da ciò che ero, dalla periferia. In generale ho sempre preferito vivere e sentire quello che provo piuttosto che farmi portare dall'intelletto, questo è il motivo per cui, nel momento di maggior successo, io e Simonetta abbiamo cambiato aria e ce ne siamo andati a Parigi. Sono anche gli anni in cui scopriamo l'associazionismo e la possibilità di realizzare gli spettacoli, sul modello dei grandi misteri medievali, con compagnie di 600 persone, al punto che ci siamo rovinati la vita con i teatri itineranti di massa (ride).

 

Tra una canzone e uno spettacolo si giunge agli albori del 2000, quando partecipi al concerto e al disco Faber, amico fragile. Il tuo pezzo, "King", è l’unico originale di tutta la raccolta, perché?

Innanzitutto c’è stata una telefonata di don Gallo "abbiamo fatto una riunione in piazza del Campo con le prostitute, i trans, gli ex brigatisti, i tossici e abbiamo deciso che quelli che ci rappresentano meglio siete tu e tua sorella Roberta", dice così perché conoscevamo e cantavamo la Genova che piaceva a De André, quella dei caruggi disastrati e vitali, dell’umanità potente di persone che pagavano prezzi altissimi con la giustizia per non aver fatto niente di davvero grave. 

In quel periodo avevamo scritto e interpretato la canzone King, storia di un piccolo spacciatore, e con questo testo ci siamo presentati all’audizione per il concerto, in un teatro parrocchiale a Milano. Dori Ghezzi e Cristiano De André ascoltano e dicono "è quella giusta". Così la prepariamo per il concerto e poi, con sommo stupore, ci inseriscono anche nel disco, con tanto di nomi, perché Dori Ghezzi insiste con i produttori che compaiano TUTTI i partecipanti, noti e meno noti, dicendo "Fabrizio non avrebbe mai escluso nessuno".

 

Cosa ricordi di quella serata?

Roberta aveva il pancione, era incinta di 8 mesi. Arriviamo e ci avevano inserito tra Vasco Rossi e Celentano, insomma, dai centri sociali ai big (ride). Ricordo l'errore di Celentano e l'incazzatura del popolo. Ma, soprattutto, ricordo che prendiamo l'ascensore per andare nei camerini, si aprono le porte, esce Franco Battiato, mi riconosce e gli scende una lacrima. Ci eravamo frequentati a lungo, soprattutto nel periodo Gaber (è stato proprio quest’ultimo a lanciarlo in tv durante il programma con la Caselli). Giorgio diceva sempre scherzando "Francuzzo è pazzo...". Insomma, non ci vedevamo da tanti anni e quella commozione è il ricordo più forte che ho della serata.

 

Nel 2002 esce l’ultimo disco dell’Assemblea, dal titolo La rivoluzione c’è già stata, dove compaiono pezzi squisitamente stile “assemblea”, si rafforza la collaborazione con tua sorella Roberta, emerge una componente che definirei mistica, ma si sente anche forte l’influenza dei recenti fatti politici e internazionali (mi riferisco a Berlusconi, il G8 di Genova, la globalizzazione, l’11 settembre)

È un disco che contiene “le facce di Gian Piero”. Parte delle canzoni proviene dallo spettacolo scritto per il Teatro della Tosse dal titolo I dialoghi degli dei, per i quali ero andato a fondo del tema cristiano e che ho poi utilizzato in veste simbolica per raccontare la mia vita.

Se "La rivoluzione c'è già stata" e "Multietnica", che aprono e chiudono il disco, sono in pieno stile “assemblea” -ritmico, allegro, sornione- le altre sono canzoni che scrivo pensando a me e Roberta come interpreti, per esempio noi due siamo letteralmente dentro a un testo come "Il destino".

Il disco esce, ancora una volta, grazie al sostegno di Renzo Fantini che ne compra il master. Questo è anche il disco dove compare la celebre battuta "non ce l'ho con Berlusconi in sé, ce l'ho con Berlusconi in me", uscita sul Corriere della Sera e spesso attribuita a Gaber. Giorgio, in effetti, aveva ascoltato la demo di "Silvio" e, da vecchio volpone, se l’era ricordata ma, pur usandola, ha sempre specificato "come dice il mio amico Gian Piero Alloisio..."

 

 

Quello che trovo estremamente interessante del tuo percorso artistico è la capacità di leggere la contemporaneità e starci dentro, senza paura del “nuovo che avanza”. È anche con questa visione che nasce e si sviluppa il talent per autori Genova per voi?

Quando il comune di Genova mi ha chiesto di fare qualcosa che riportasse la città in connessione col processo discografico ho scelto di indirizzarlo sul percorso d'autore, e non di interprete, perché è quello che ho conosciuto e nel quale ho esperienza da trasmettere. Inoltre, c’è da dire che l'autore ha vita più lunga dell'interprete perché le sue canzoni girano tanto e spesso gli sopravvivono continuando ad essere rielaborate in cover in giro per il mondo.

In origine volevo addirittura realizzare una grande unità tra rapper, canzone d'autore e ciò che scrivono i giovani oggi (qualsiasi cosa sia), soprattutto per evitare di costruire un talent fondato sull’imperialismo culturale d’annata. 

 

Di Genova per voi sei direttore artistico e produttore, in palio c’è la possibilità di entrare in Universal/Ricordi come autore e di lavorare con altri autori professionisti proponendo canzoni ad artisti di fama. Nella scuderia del talent troviamo nomi ormai affermati di interpreti come Willie Peyote, Claver Gold e Dutch Nazari, ma anche Federica Abbate, Alessandro La Cava, Emanuele Dabbono. Ci racconti questa esperienza?

Genova per voi ormai lavora in una dimensione nazionale e internazionale come megafono di richiamo sui testi e sugli autori. 

La vicenda di Federica Abbate, autrice italiana più venduta della storia della musica italiana, è un esempio lampante dei nostri tempi e sono convinto che se fosse stata un uomo le avrebbero dato del genio, invece essendo donna, se ne parla meno di quel che merita... il talento delle donne non basta mai.

Del resto a noi non interessa che gli autori lavorino con Universal, perché non tutti lavorano bene con la major (Dabbono, ad esempio, ha il contratto in esclusiva con Tiziano Ferro che lo ha sentito sul web) l’importante per noi è che lavorino e trovino la propria strada.

Tieni conto che Genova per voi ha prodotto il ritorno della musica italiana ai vertici delle classifiche perché prima, fino al 2013, erano dominate dagli angloamericani. Questo è un grande servizio al paese e in questo mi sento patriottico, più della Meloni! In fondo ho trovato lavoro a un po’ di giovani, che in Italia è più di quello che fanno molti governanti (ride).

 

 

A inizio maggio è uscito nelle sale La nuova scuola genovese, un docufilm scritto e ideato da Claudio Cabona e diretto da Yuri della Casa e Paolo Fossati, dove, tra Tedua, Paoli, Ivi, De André, compari anche tu. La tesi fondamentale del film è un tema a te molto caro ossia la relazione e continuità tra canzone d’autore e il rap.

Bisogna stare attenti quando si usa la definizione "canzone d'autore" che è diversa dal "fenomeno dei cantautori" che ha un inizio e una fine ben definiti. In qualche modo, a Genova io sono stato l'ultimo che è passato dalla porta prima che la chiudessero, è un fatto anagrafico: ero il più giovane del gruppo “cantautori” e dopo di me la porta si è chiusa, non è entrato nessun altro in quella categoria, è finita.

Oggi però, i cosiddetti “cantautori” sono stati sostituiti dai rapper, un fenomeno di massa e di parola molto forte. Autori come Rancore, Marracash, Willie Peyote, Murubutu, Claver Gold hanno saputo riprendere un discorso sulle periferie che i cantautori avevano completamente dimenticato. A mio avviso, nella discografia contemporanea, l’album che, come facevano De André e Guccini, è capace di raccontare l'oggi in forma poetica individuando degli elementi universali che tutti possono capire è Noi, loro, gli altri proprio di Marrakesh che, tra l’altro, contiene un monologo di Fabri Fibra in pieno stile Signor G.

In generale, però, bisogna stare molto attenti a non creare limiti. Quando, nel 2018 al premio Tenco parlavo di Genova per voi mi hanno accolto tiepidamente. Quest'anno lo stesso premio Tenco, che ha inventato la definizione di “canzone d'autore”, ha decretato la fine di questa etichetta dicendo che esiste solo la canzone bella e brutta e che quella bandiera va abolita. 

 

Ancora una volta, Alloisio ha anticipato i tempi.

 

 

di Elena Ghezzi

collaborazione di Alessandro Vailati

fotografie di Daniele Bencivenga

 

 

Link

gianpieroalloisio.it

ATID - Teatro italiano del disagio

Genova per voi