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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
Gladsome, Humour & Blue
Martin Stephenson and the Daintees
1988  (Kitchenware Records)
ALTERNATIVE AMERICANA/FOLK/SONGWRITER
all RE-LOUDD
28/03/2022
Martin Stephenson and the Daintees
Gladsome, Humour & Blue
Letizia, umorismo e tristezza: è raro che il titolo di un disco riassuma e racchiuda così bene ciò che vi è al suo interno, ma questo è il caso del capolavoro di Martin Stephenson and the Daintees. Un’opera senza tempo, colma di saggezza e con una visione d’avanguardia, di una bellezza commovente che continua a far venire i brividi anche a quasi trentacinque anni di distanza.

Ci sono album, anche di grande successo, i quali, riascoltati parecchio tempo dopo, perso il contesto in cui sono stati concepiti, risultano senza appeal, superati, mentre è innegabile, invece, che altri ne acquisiscano ancor maggiormente. Gladsome, Humour & Blue fa parte di questo secondo caso, perfetto bilanciamento tra un sound pulito e innovativo, che risente solo minimamente delle forzature anni ottanta, e un songwriting solido e stuzzicante con liriche all’avanguardia, evidenzianti una saggezza inaspettata per un ragazzo poco più che venticinquenne, con il prato verde del futuro spalancato dinanzi a sé. Il britannico Martin George Stephenson, leader e frontman del gruppo, ha architettato, con la sua inseparabile chitarra, undici imperdibili gioiellini di soave folk pop e insieme alla band li ha colorati di rock, gospel e blues riuscendo a migliorare il già notevole esordio del 1986, Boat to Bolivia, ben ricevuto all’epoca anche in Italia.

 

THERE COMES A TIME -When nerves they have enough- THERE COMES A TIME -When this life should be mine-They scratch and tear- At every part of me-I shall resign -THERE COMES A TIME…

 

L’inizio sembra incedere leggero, ma la soffice base acustica e una melodia che ricorda vagamente le prime note di "When the Saints Go Marching In" diventano dirompenti sotto le percussioni di Paul Smith, mirabilmente accarezzate da fisarmonica (Michael “Mickey” Watson) e violino (Steven Foster-Pilkington) e traspare la dichiarazione d’intenti dell’autore: sarà un viaggio introspettivo che porterà ad alcune considerazioni universali, e, come accade nella vita e sentenziato nell’anafora, “ARRIVA UN MOMENTO in cui i nervi ne hanno abbastanza, ARRIVA UN MOMENTO quando questa esistenza dovrebbe essere mia”. Una riflessione agrodolce, una voglia di riappropriarsi di qualcosa tolto, “loro graffiano e strappano ogni parte di me” per cui non bisognerebbe rassegnarsi. E subito dopo arrivano le ritmiche allegre del pezzo più rock della raccolta, "Slaughterman", che prosegue il discorso iniziato, con una sagace invettiva che a colpi di metafore e forte umorismo lamenta l’ipocrisia di chi si schiera sempre con la ragione e mai col torto, fino a perdere ogni cognizione della propria persona e venir fagocitato a piacimento dal potere.

L’alternarsi di contentezza, ironia e tristezza raffigura perfettamente la tematica dell’opera ed ecco l’infelicità palesarsi nell’intensa "The Wait", cadenzata da un violino e un cello da brividi, mentre "I Can See" è solare e speranzosa, alimentata da un sassofono preciso, vibrante e linee di basso impeccabili, ben disegnate da una colonna portante della band dal 1982, Anthony Dunn. Il tempo passa veloce ascoltando il sound limpido creato dai due produttori, l’istrionico David Brewis e Paul Samwell-Smith, irreprensibile metronomo catalizzatore degli Yardbirds nei sessanta, ora pignolo costruttore di suoni e parte importante di questo lavoro che tocca l’apice con la salvifica "The Old Church Is Still Standing", rasserenante quadretto religioso, per poi celebrare l’elogio di un perdente in "Even The Night". Questo è forse il brano più struggente e commovente del progetto, una ninna nanna tragica, fotografia sbiadita di un uomo, ritratto della solitudine, che non aspira più a niente, a parte un’ultima birra da trangugiare prima di gettarsi nel fiume per scordare i tormenti, gli errori e pure le ingiustizie subite in un’esistenza inutile. L’orchestrazione arrangiata da Michael Watson è sublime e, per un attimo, fa dimenticare il dramma in atto per merito della leggiadria presente nei violini di Anne Stephenson e Caroline Barnes, corroborate da Caroline Lavelle, cello e Fay Evans, viola. Rimane geniale, poi, l’intervento della storica cantautrice ambient Virginia Astley al flauto e cori.

 

“Mio padre era un omofobo, la mia risposta fu scrivere Wholly Humble Heart”.

 

Un’altra vetta del disco, scelta come singolo da traino e addirittura smembrata musicalmente, velocizzata per risultare più orecchiabile, prodotta da Russ Kunkel seguendo le mode in voga in quel periodo al fine di ricevere maggior airplay, è appunto "Wholly Humble Heart", presente nella tracklist quindi in due versioni; se da una parte la composizione strizza l’occhio al pop, dall’altra è caratterizzata da un messaggio duro anti-establishment, richiedente tolleranza e inclusività. “Ho un amico in comune che è un ragazzo gay, mi dice che è pieno d’amore, non lasciamo che Malcom sia un’eccezione, gli auguro che trovi qualcuno da amare…” canta Martin con disinvoltura, stavolta senza metafore, anticipando i tempi in cui alcune problematiche importanti saranno finalmente sdoganate, anche se, a dire il vero, l’attuale panorama sociale e politico non sembra meno caotico degli anni della Thatcher.

C’è anche il dolce momento dei ricordi con il folk blues di "Me and Matthew": chitarra acustica di Stephenson e dobro del magico Gypsy Dave Smith, rigorosamente accordati in Do, per la rievocazione di una placida giornata dell’estate 1973 vissuta nella serra di famiglia insieme al nonno, tra vino d’orzo e profumo di tabacco da pipa. Ah, se si potessero fermare certi periodi della gioventù, rifugi del cuore e dello spirito! Ma non c’è possibilità, tutto scorre e si giunge così, sempre seguendo gli stati d’animo indicati dal titolo dell’album, alla disavventura affettiva di "Nancy", una malinconica ballata folk con accenni rock che sconfina nuovamente nel pop, appesantita da liriche cupe e senza speranza. Anche "Goodbye John" è mesta, amara memoria di un brutto compleanno, ed è caratterizzata dal cantato-parlato del musicista inglese originario di Durham. Rimane un disincantato bozzetto acustico di rara intensità e precede l’ultimo pezzo della raccolta, "I Pray", pregevole gemma catturata genuinamente alla terza “take”, senza sovraincisioni, impreziosita dal sax del “tuttofare” Michael Watson, le cui note spesso si avviluppano amabilmente a quelle cesellate uscenti dalla sei corde di Gary Dunn. Questa calda atmosfera spalanca le porte per un’incursione nel jazz blues da fumoso night club. Il testo è geniale, visionario, sfuggente e ricalca gli argomenti cari all’autore e ai suoi Daintees.

 

I Pray è una strana canzone, mi domando ancora adesso da dove sia sbucata nel mio songbook, però ricordo di averla suonata al “Sight and Sound in concert” - programma televisivo della BBC, ndr - insieme a una grande band di quell’epoca, i Bible.”

 

Non solo i Bible, ma pure gli amici Hothouse Flowers, con cui ha condiviso un tour di tre mesi in America, i Prefab Sprout, compagni della stessa etichetta discografica, gli Aztec Camera, i Del Amitri, i Pogues, John Martyn e l’idolo di una vita Roy Buchanan fanno parte degli incroci in carriera del gruppo e del suo leader in quei famigerati anni ottanta, senza dimenticare gli eroi e ispiratori fin dall’infanzia, quell’inguaribile e affascinante perdente di nome Peter Green, i Doors, Santana e, più avanti, Joe Strummer e i primissimi Cure. Personaggi niente male per un Martin Stephenson sempre maggiormente innamorato della spiritualità della musica, poco a suo agio con rivalità e successo, adorante del basso profilo, libero dalle catene del conformismo. In fondo si parla di un autodidatta nato senza schemi che, oltre a cercare di imparare i trucchi del mestiere dai suoi amati artisti, ha sviluppato la propria tecnica leggendo e rileggendo un libro di chitarra spagnola, immergendosi via via in lezioni sempre più ardue per padroneggiare jazz, blues, country, skiffle e reggae.

Esattamente questo insieme di ideali, questo suo essere anti-competitivo, ha fatto prendere una strada particolare al protagonista, che, all’apice della notorietà mantiene un livello low-key, sceglie di confezionare un paio di prodotti poco mainstream e nel 1992 scioglie l’ensemble. Seguono anni in cui il musicista prosegue il cammino in strade di serie B dello spettacolo, egualmente affascinanti e stimolanti, ma meno sulla cresta dell’onda, come piace a lui, cantore di fallimenti e sconfitte. All’inizio del secolo avviene comunque la reunion, alcuni live, punto di forza della band, vengono pubblicati, e successivamente sopraggiungono nuove registrazioni integrali per festeggiare i trentennali delle opere di maggior successo. Arriva pure un LP, Howdy Honcho (2021), che ricalca quanto di bello costruito in carriera ammiccando al bluegrass e all’alternative country. La copertina è disegnata dalla figlia Phoebe, piacevolmente attratta dall’arte come la sorella Esme.

Oggi Martin Stephenson è un felice sessantenne che abita in Scozia, Paese che ha dato i natali al padre e in cui ha spesso vissuto in gioventù. Si divide tra sala d’incisione, dove ha appena terminato l’esperimento solista Good Will Factory e appuntamenti dal vivo, ora che sembra essersi aperto uno squarcio dopo mesi di pandemia. Racconta da stupito il raggiungimento del suo traguardo, senza tralasciare il solito pizzico di humour: “Sono grato di avere 60 anni, il mio è stato un viaggio sorprendente. Ho sempre amato le persone anziane e avevo un sacco di rispetto per i più vecchi…e ora sono uno di loro! Pensavo che avrei avuto la barba bianca e sarei stato come Confucio arrivando a questa età, dando a tutti i miei consigli. E invece non so ancora fottutamente niente!”. Diavolo di un Martin, non cambi mai!