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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
18/09/2023
James Taylor
Gorilla
Avere quasi cinquant'anni e non sentirsene nemmeno uno: sono i miracoli della musica. Da "Mexico" a "Sarah Maria", ecco "Gorilla", un disco bellissimo e intenso sulle mancanze, i dubbi e i fallimenti. Un album ove una tranquilla disperazione si intreccia ad armonie meravigliose, uno dei picchi di James Taylor.

Usando un po’ di retorica, si potrebbe dire che ascoltare musica significhi portare nuovamente in vita una situazione passata, farla affiorare nel presente. Quando premiamo play e comincia a suonare una canzone si apre a noi un mondo parallelo, ci addentriamo nella bellezza dell’Arte, cogliamo il suo valore sacro e proviamo una sensazione di realizzazione, non solo a livello terreno, ma anche in senso spirituale.

Ascoltare Gorilla di James Taylor permette di percepire questo tipo di emozioni, è un’esperienza trascendentale, catartica, riconduce al periodo denso e coinvolgente di inizio anni Settanta, ricco di contraddizioni e accadimenti inaspettati. Entrando nella sfera più personale emergono poi le ansie e i tormenti del cantautore (nato nel 1948 a Boston, ma cresciuto a Chapel Hill, prima di trasferirsi a New York), in difficile equilibrio tra serenità interiore e inquietudine, a rischio di deragliare nella pazzia, come avvenuto durante l’adolescenza.

Nello stesso tempo, però, l’esperienza vissuta diventa l’espressione del tempo che scorre, ci spinge a riflettere e si identifica nelle miserie e rovine odierne. In fondo l’esistenza non è per niente cambiata, se non in peggio, forse, costretta a ritmi forsennati, sempre in bilico, in perpetua oscillazione verso uno scorcio di tranquillità, ma con il baratro dell’insoddisfazione a due passi.

E proprio una delle vette del disco, il traditional rivisitato “Wandering”, parla della scoperta di sé attraverso la storia romanzata della vita di James, le sue lotte contro la tossicodipendenza, i problemi familiari e la ricerca di una propria identità, mentre, anche metaforicamente, “Sembra non possa avere mai fine il mio vagabondare”. La stessa title track, già bizzarra per veste sonora, tra mandolini, ukulele e un clarinetto oltraggioso, potrebbe apparire di primo acchito una composizione stramba, semplicemente il racconto di un gorilla desideroso di andare a spasso per la città. In verità Taylor ritrae l’animale come un personaggio simpatico e incompreso, solitario in un mondo nuovo non completamente capito, come riflesso di se stesso.

Similarmente, "Angry Blues" è un pezzo funky, impreziosito da chitarra slide e vocalizzi del grande Lowell George, che si concentra sul fastidio dell’autore nei confronti della vita e dell'amore, accettando pure di sentirsi a volte fuori luogo. Udire un songwriter di cotanto lignaggio sostenere notevoli difficoltà nell’affrontare le vicissitudini quotidiane, sentimentali e non, fa scattare l’impulso dell’immedesimazione, non ci si sente più soli nelle asperità, con la musica a fungere da collante, a unire con melodie meravigliose, scevre di sovrastruttura, terse e fluide come acqua di sorgente.

 

La nitidezza del suono, merito anche dei pregiati produttori Lenny Waronker e Russ Titelman, l’armoniosità delle canzoni godono inoltre del valore aggiunto di session men speciali e di alcuni special guests. Due giganti del basso, Willie Weeks e Lee Sklar, si dividono il compito di rendere onore allo strumento durante tutta la scaletta, la batteria è nelle mani solide di veterani del calibro di Russ Kunkel oppure Andy Newmark, ed è sorprendente come l’arpa e la fisarmonica rispettivamente di Gayle Levant e Nick DeCaro contribuiscano a regalare un clima country folk a una manciata di brani. Gli ospiti più rinomati sono sicuramente Graham Nash e David Crosby, ai cori della dolcissima “Lighthouse” (una delle gemme nascoste da riscoprire, con l’istrionico Randy Newman all’hornorgan) e dell’hit “Mexico”, opener allegra, sognante, fantasiosa, ironica e spensierata (in contrasto con il resto del materiale), che insieme alla famosa cover “How Sweet Is (To Be Loved By You)”, un classico di Marvin Gaye proveniente dalla penna affilata del magico team Holland-Hozier-Holland, offre la parte più elettrica ed energica del repertorio di Taylor.

 

Se Il precedente Walking Man (1974) aveva invertito la rotta delle prime quattro opere, risultando commercialmente un flop, adesso l’avventura di James Taylor riparte alla grande con Gorilla. Le trame intessute dalla sua acustica sono di rara bellezza e l’artista si destreggia con maestria nel folk rock con venature country di “Music”, nomen omen, vero inno al potere incontrastato e benedetto della Musica, “Accendi la musica, attacca la musica, lascia che la musica cambi la mia mente” e in quell’incrocio nostalgico tra soul e r&b di “I Was a Fool to Care”. “Sebbene sia un pazzo, sono ancora innamorato di te”, canta il protagonista della storia che si descrive come uno sciocco con il cuore spezzato, ma in fondo non si può essere stupidi quando si è innamorati, è un sentimento troppo nobile!

Taylor sta vivendo ancora momenti abbastanza gioiosi (si ascolti ad esempio la morbida “Love Songs”) con l’allora sposa Carly Simon, alle armonie vocali nella già citata “How Sweet It Is”, ma nubi grigie e cupe stanno riempiendo il cielo del loro amore e anche la splendida e struggente ballata “You Make It Easy” lo denota, con il sax malinconico del geniale, profondo David Sanborn, un delicato arrangiamento orchestrale sullo sfondo e un testo che narra il fascino e la tentazione dell'adulterio durante il matrimonio: "Io e mia moglie avremo il resto della nostra vita per rimediare a questa situazione, ma io e te ci vedremo solo stanotte…”.

La chiusura del disco è tenera, prosegue quindi la terribile dicotomia tra bene e male nella testa dell’artista. Ora è il momento dell’affetto per la figlia Sally, nata Sarah Maria Taylor nel gennaio 1974, e “Sarah Maria” è appunto il titolo conclusivo, con la melodia accarezzata dalla solita chitarra acustica, indirizzata da mandolino e accordion e cadenzata dalla marimba di Victor Feldman.

 

Gli anni Settanta continuano bene, musicalmente parlando, per James Taylor; una sfilza di successi e collaborazioni, almeno due dischi da ricordare come In the Pocket” e “JT”, ma il peso sborsato a livello fisico e mentale è immane. Droga e alcool, oltre all’instabilità psicologica, stanno facendo pagare il loro pegno e il matrimonio con Carly Simon va ormai in frantumi. La convivenza fra due grandissimi artisti non è facile, tra invidie, personali carriere e figli. La coppia annuncia la separazione a Settembre 1981, sei mesi dopo la pubblicazione del tormentato Dad Loves His Work, piccolo capolavoro misconosciuto realizzato in un momento difficile. L’autore di "Carolina in My Mind" esce dal divorzio in pessime condizioni, provato, distrutto, e medita anche il ritiro dalle scene. Sarà la musica, come spesso capita, a salvarlo e a dargli la forza di andare avanti. Così incide il piacevole That’s Why I’m Here (1985) e rivive un periodo di costante successo, avvalorato da un’intensa attività live e alcune perle come New Moonshine (1991), Hourglass (1997) fino al recente American Standard (2020) che si aggiudica pure un Grammy.

La vita sentimentale attraversa altre situazioni difficili, ma ora, genitore da più di vent’anni anche di due gemelli e felice sposo di Caroline “Kim” Smedvig, il lungo cammino sembra terminato. Stavolta citando di nuovo “Wandering” e modificando leggermente le liriche, “Sembra finito il suo vagabondare”.

«Sì, mi ci è voluto molto, molto tempo. Per integrarmi. Almeno nella misura in cui l'ho fatto ora. È stato un passaggio pericoloso. In sei o sette momenti specifici della mia vita sarei potuto morire facilmente. Ce l'ho fatta... È stato un sacco di tempo sprecato… Ma suppongo sia quello che ho dovuto affrontare per arrivare fin qui. Sono grato di esserci e cerco di ricordare che sono fortunato, è l'atteggiamento giusto». Estratto da “JAMES TAYLOR: The Blue Railroad Interview” di Paul Zollo.