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REVIEWSLE RECENSIONI
29/01/2018
Black Label Society
Grimmest Hits
L’ultimo lavoro con i suoi Black Label Society, esce a quattro anni da “Catacombs Of The Black Vatican” che già dal titolo lasciava presagire mistero, potenza e badili nei denti. “Grimmest Hits” invece si colloca molto meno nell’area dei badili e molto più in quella del viaggio.
di Linda G.

Sia chiaro, Zakk Wylde potrebbe suonare anche il citofono la domenica mattina alle sei e lo suonerebbe comunque divinamente. Come sempre, quando lo ascolto, mi chiedo come delle braccia agricole e delle mani che ogni donna userebbe come battipanni sulle sue chiappe, possano produrre suoni tanto eleganti, toccare le corde con quella bellezza e unicità da rendere il buon Zakk uno dei migliori da anni.

L’ultimo lavoro con i suoi Black Label Society, esce a quattro anni da “Catacombs Of The Black Vatican” che già dal titolo lasciava presagire mistero, potenza e badili nei denti. “Grimmest Hits” invece si colloca molto meno nell’area dei badili e molto più in quella del viaggio.

È un album discreto ma senza nulla di memorabile, nulla che ti tenga lì ad aspettare una sua visione dal vivo. È da viaggio perché lo ascolti come colonna sonora, mentre sei in macchina, sull’autostrada verso il mare. Non che sia un album dei Creedence Clearwater Revival (re indiscussi della musica da viaggio), è sempre e comunque un southern rock, alle volte più spinto, altre un po’ troppo volutamente “abbracciamoci forte ascoltando questa ballad”.

“Trampled Down Below” apre l’album chiarendo da subito le regole del gioco: si apre con la botta e si crea una certa aspettativa. Come quando sei sotto al palco e dici “Fico, ok, adesso fammi sentire”. Non lo sai, ma starai lì tutta la sera ad aspettare la svolta.

“Season Of Falter” conferma   la sensazione. “A love unreal” invece no, non c’è per nulla: “unreal” è la sostanza di questo pezzo. Una ballad che ti fa due balled così.

Fortuna che è preceduta da “Room of Nightmares” che un po’ di spinta ce l’ha e ti fa venir voglia di starci sotto a quel palco.

In “Desbelief” e in “All That Once Shined” si sentono tutti gli  anni alla corte di Ozzy ma non regalano le stesse emozioni.  Un tributo di sabbathiana ispirazione ma con poca personalità.

“The Day That Heaven Gone Away”  riassume perfettamente tutto l’album. Ribadisce l’idea del viaggio, che sia quello interiore, che sia in auto o che sia a piedi, per andare alla messa della domenica, con il fervente Zakk che ti accoglie sull’uscio per dirti la sua verità.