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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
24/05/2021
J.J. Cale
Guitar Man
“In molti hanno inciso le mie canzoni e ciò ha fatto bene al mio ego”. Guitar Man nasce da questa consapevolezza, è l’epilogo ed anche il meglio riuscito di una serie di dischi che porta, negli anni 90, J.J. Cale a sperimentare, produrre nuovi suoni, a volte diventare vero e proprio one man band. Sempre controcorrente, si sbizzarrisce nell’uso di sintetizzatori proprio nel periodo di svolta in cui l’unplugged e il grunge erano i nuovi trends.

Nella sua esistenza ha fatto di tutto, dall’ascensorista al tecnico del suono, fino a vivere in una roulotte. Ha avuto il piacere di raggiungere la notorietà senza cercarla, ma ciò non ha mai cambiato il suo modo di essere.

“Perché dovrei promuovere qualcosa che è già un successo?”

Tale risposta, alla richiesta di un agente discografico che cercava di convincerlo a partecipare ad alcune trasmissioni radiofoniche e televisive al fine di dar maggior risalto alle sue opere, sintetizza perfettamente l’uomo che ci troviamo di fronte.

Nativo di Oklahoma City, ma cresciuto a Tulsa, John Weldon Cale si diploma alla Tulsa Central High School nel 1956. Ha diciotto anni, e oltre ad avere già imparato a suonare bene la chitarra, è un cultore dell’elettronica, che utilizza per minuziosi esperimenti nel campo sonoro. Nella sua preparazione incide il fatto di aver proseguito questa passione durante il servizio militare all’Air Force Training Command nell’Illinois, dove invece di imbracciare un fucile impara tutti i trucchi dell’amplificazione.

Diversamente da tanti genitori di quell’epoca (aggiungerei tristemente anche di adesso) viene da loro assecondato quando decide di muoversi verso Los Angeles, nel 1964, per sbarcare il lunario. In verità, dopo alcuni anni vissuti anche sull’orlo del vagabondaggio, tornerà deluso a Tulsa. Aveva suonato e prodotto tanto, gli era stato anche cambiato il nome in J.J. Cale al fine di evitare confusione con il famoso membro dei Velvet Underground, ma non era scattata la scintilla.

Non era finita, però. Quando nel 1970 fortuitamente e fortunatamente Eric Clapton incide la sua After Midnight (il felice connubio toccherà l’apice in seguito con Cocaine) finalmente la sua vita cambia improvvisamente. Riesce, ora che riceve gli introiti come autore, a pubblicare il suo primo album, Naturally, e da quel momento la sua attività discografica prosegue ininterrotta fino ai primi anni ottanta. Si rivela un pioniere per l’utilizzo ingegnoso di drum machine e vari marchingegni di pari livello, presenti anche nei brani più conosciuti come Call Me the Breeze e Crazy Mama.

Il suo Tulsa Sound è un’azzeccata miscela di rock, blues con venature country e una strizzata d’occhio al jazz. L’incapacità innata di scendere a compromessi per mantenersi sulla cresta dell’onda lo porta a un oblio, per poi ricomparire all’inizio del decennio successivo.

I nineties sono un’altra tappa decisiva della carriera. Il vecchio amore per l’elettronica prende il sopravvento e registra quattro album, di cui gli ultimi due quasi in solitaria: lui, la chitarra e i sintetizzatori.

L’episodio meglio riuscito, che ha suscitato l’ammirazione del già citato e amico Clapton e ha portato Neil Young a definirlo uno dei suoi maestri, è Guitar Man.

Scorrendo i credits delle dodici tracce notiamo che solo l’esuberante iniziale Death In the Wilderness, ricca di fremiti southern rock e scossoni country folk, aggiunge musicisti oltre all’autore.

Sono il fidato James Cruce alla batteria, già ai suoi servigi in altre incisioni e in alcune esibizioni dal vivo, e l’eclettica graziosa Christine Lakeland -moglie nonché compagna di vita on the road- ai cori e alla chitarra di accompagnamento.

Tutto il resto è opera di Mr. Laid Back. Questo termine, laid back, traducibile in italiano come “rilassato”, è stato affibbiato al suo stile dai critici musicali ed è diventato un vero trademark per il musicista che, come sempre in modo sorprendente, ne ha dato un’interessante spiegazione.

“Fu Billie Holiday la prima artista laid back: cantava sempre in ritardo sul ritmo, sia fosse veloce, sia fosse lento. Nessuno lo notò. Poi arrivai io e decisero di utilizzare tali parole per me. E funzionò. Come vedete, questo non è altro che fottuto music business.”

Approfondendo ulteriormente la cosa ci si può rendere conto di quanto questa “tranquillità”, vicina al vero e proprio “scazzo”, rappresenti una filosofia di vita, incarnata anche nel modo di vestirsi e di atteggiarsi. Spettinato, camicia rigorosamente aperta, chiusa da un solo bottone in fondo, cappellino appeso alla fibbia dei jeans, ma sguardo profondo e sorriso infingardo, con due occhi furbi e veloci. Ecco come si presenta ai concerti l’artista che fece innamorare della sua musica anche Santana e Lynyrd Skynyrd.

Scorrendo la scaletta del disco troviamo folgoranti guitar solo strozzati sul più bello in It’s Hard To Tell, caratterizzata dal classico cantato di Cale, che fa pensare a varie sovraincisioni vocali (se non sono riusciti fior di produttori a capire pienamente i suoi stratagemmi pure chi scrive non può che alzare bandiera bianca) e pennellate di jazz ad arricchire Days Go By, uno dei brani più rappresentativi dell’opera insieme a Low Down. Quest’ultimo è puro rock and roll fatto alla maniera di J.J.: veloce, ma non troppo, che ti lascia il piedino festante a battere il ritmo senza che ci si scateni in vorticosi balli.

Rimangono da segnalare l’affascinante andamento blues di This Town, che fa ricordare quanto i primi Dire Straits attinsero da questa ricorrente architettura sonora e la title track, morbido esperimento che abbina alla classica cavalcata country rock, ricca di chitarre stratificate, un massiccio uso di ogni tipo di synth.

“Cannonball” Adderley, Charlie Christian, Mose Allison e Django Reinhardt sono le influenze dichiarate ed effettivamente aleggiano nelle atmosfere create. Il traditional Old Blue, la tambureggiante Doctor Told Me e, soprattutto, la delicata Miss Ol’St. Louie definiscono poi la sua predilezione più forte, uno dei musicisti maggiormente sottovalutati, di nicchia, ma tanto amato pure dai colleghi: Clarence “Gatemouth” Brown.

Le liriche, poi, puntano sempre su una sottile ironia, sia si tratti di riflessioni sul tempo che scorre o si parli della tristezza provata per una relazione amorosa difficile. Ciò che pervade l’opera è l’accettazione del disincanto e l’invito ad accogliere con serenità quello che il destino offrirà. In fondo, per Cale, scrivere canzoni significa essere osservatori del mondo reale, impossibile andare oltre perché non vi saranno risposte, nessuno lo sa (vedasi Nobody Knows, traccia che chiude la raccolta).

 “Anche la musica viene dalla vita, non la vita dalla musica”.

Dopo Guitar Man, tanto per non smentirsi, J.J. Cale scomparirà dalla scena fino al pregiato to Tulsa and Back (2004), corredato in seguito da un prezioso documentario che espliciterà maggiormente la mentalità e umiltà di quest’incredibile artista.

“Non volevo essere lo show, volevo esserne solo una parte”.

E ne sarà una gran parte in quel frangente, con il ritorno ai concerti, lo spumeggiante album The Road To Escondido in partnership con Eric Clapton nel 2006 e, tre anni dopo, l’eccentrico Roll On.

Si era sempre ripromesso di fare musica fino alla fine, fino allo sfinimento, principalmente per lui, tutto il resto era relativo. E ha mantenuto fede a quanto detto, andandosene in un istante per un attacco di cuore in una calda giornata di luglio, nel 2013.

Di lui rimane un ritratto di semplicità, che gli ha pervaso esistenza e arte. Tale semplicità ha, però, rappresentato un punto di arrivo, non di partenza, e ha fatto la differenza per elevarlo a maestro. Basterebbe chiedere a tutti i musicisti che hanno piacevolmente incocciato in lui: alla fine hanno suonato alla sua maniera, adottando quello stile unico.


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