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REVIEWSLE RECENSIONI
03/12/2018
Architects
Holy Hell
Intenso e aggressivo, straziante e potente, profondo e lieve, oscuro e ispirato, denso e intimo. Una cattedrale di urla, sangue, archi, chitarre e batterie. Un inferno santo. Il capolavoro degli Architects. Probabilmente uno dei migliori album del 2018.

Chiunque di noi, in quanto essere umano, si è confrontato con il concetto di dolore. Il modo in cui lo affrontiamo è una questione intima, a volte controversa, e le vie che troviamo per conviverci sono difficili e tortuose, ma soprattutto lunghe. È un percorso complesso e irto di insidie, una parete da scalare in cui si spera di riuscire a trovare almeno un appiglio, un labirinto da cui non si è certi di poter mai uscire, in cui ci si sente fondamentalmente soli e da cui non si uscirà mai uguali a come ci si è entrati.

L’elaborazione del dolore è un sentimento difficile da mettere a tema, e farlo richiede coraggio. Lo richiede già il portarlo fuori da sé e condividerlo con una persona fidata, lo richiede ancora di più condividerlo come band e regalarlo al proprio pubblico. Gli Architects lo fanno con rabbiosa eleganza e mirabile tecnica, trasformando l’inguaribile perdita del fondatore, principale compositore, chitarrista e tastierista del gruppo Tom Searle in un tributo all’amico, in un modo di reagire al lutto, in uno sfogo e in una dichiarazione di intenti per il futuro.

Holy Hell è una sintesi sofferta e perfetta, sia a livello musicale sia rispetto ai testi. Partendo da alcuni elementi scritti da Tom, che aveva iniziato a lavorare su alcune canzoni (che la band ha giustamente deciso di non esplicitare per non falsare il giudizio degli ascoltatori), i cinque ragazzi di Brighton hanno costruito il loro ottavo album in studio. Un disco che non fa che confermare la loro costante e implacabile crescita, perché ad ogni lavoro ci si ritrova nuovamente ad ammettere che risulta migliore, più maturo, più a fuoco e più armonico del precedente.

Ai testi, per l’occasione, la penna è stata ceduta quasi completamente a Dan Searle (batterista della band e fratello di Tom) che ha colto l’occasione per gettare in inchiostro tutto il dolore, le riflessioni sulla religione e i pensieri sulla condizione umana nel suo senso più ampio. Delle parole a cui non poteva essere data voce migliore di quella di Sam Carter, che con il suo inconfondibile stile fatto di urla torturate e innesti melodici esprime con forza, rabbia e disperazione tutti i demoni e le più intime riflessioni delle loro anime.

Musicalmente invece non ci sono mezzi termini: l’impatto sonoro è devastante. A tutti i livelli. Come per la voce, anche per gli altri strumenti la miscela è esplosiva: riff rabbiosi e taglienti, bit e progressioni musicali quasi brutali, unite all’estrema eleganza e delicatezza degli archi, che invece che abbassare i toni non fanno che amplificarne la violenza, creando un’aura di profonda e intima sacralità.

Trovare i brani migliori diventa quasi impossibile, perché gli Architetti del metalcore sono riusciti a costruire una progressione di pezzi quasi catartica, in cui ogni tassello trova il suo senso all’interno del disegno complessivo, dotato di una qualità ineccepibile nella produzione e di un’attenzione quasi maniacale nelle atmosfere. Tra le 11 tracce di Holy Hell si possono trovare perle nascoste come la splendida “Mortal After All” e singoli il cui impatto si può misurare solo nella distanza tra i buchi di nera pece nelle anime di chi ascolta, come per la bellissima “Royal Beggars”.

Holy Hell è denso, potente, straziante e brutale, è vero, ma non è sconfortante. E per ammissione degli stessi membri della band non intende lanciare messaggi disperati, anzi. È la testimonianza di un percorso sofferto che, in tutta la sua violenza, non insegna né a restare tristi, né a lasciarsi schiacciare dal mondo, ma ad affrontare le tragedie che ci pone sul cammino e ad imparare da queste, per permetterci di vivere nella maniera migliore che possiamo. Perché anche se quello in cui siamo è un labirinto oscuro, vi è sempre una luce e una via d’uscita. Quindi urliamo, gridiamo, sanguiniamo e sudiamo, ne usciremo solo più forti, più determinati e con la testa abbastanza alta da essere capaci di guardare alle stelle.