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REVIEWSLE RECENSIONI
28/06/2021
Lucy Dacus
Home Video
Oggi Lucy, che si è nel frattempo trasferita a Philadelphia, si definisce una “cristiana dal punto vista culturale”, le manca la dimensione comunitaria di quel periodo ma confessa di non credere più in Dio, per lo meno nel senso classico del termine. Ha fatto pace col suo passato, comunque. In “Home Video” è tornata a cantare di temi strettamente personali...

Al giorno d’oggi sembra non esserci alcun limite per l’esercizio della nostalgia. Viviamo nell’epoca dell’eterno presente ma allo stesso tempo l’enorme disponibilità di video e altre testimonianze legate al passato fa sì che la tentazione di guardarsi indietro sia più forte che mai. D’altronde se un Social Network come Facebook ha attivato da qualche tempo la funzione “Ricordi”, proponendoci vestigia del nostro passato ogni qualvolta accediamo in bacheca, qualcosa è effettivamente successo, parrebbe.

Lucy Dacus ha 26 anni, un’età in cui ci si direbbe immuni da queste dinamiche. Eppure, per il suo terzo disco, sceglie un titolo come “Home Video” e decide di raccontare, nelle undici canzoni che lo compongono, varie vicende legate al suo periodo 13-17 anni. Ne avevamo avuto sentore già col singolo “Hot & Heavy”, che apre il disco con freschezza ed energia, ritmi alti e piglio tipicamente springsteeniano; nel video che lo accompagna c’è lei che entra in un cinema, si sistema su una poltrona con un bel bidone di Pop Corn, e si mette a guardare una serie di immagini della sua infanzia, rigorosamente provenienti da una telecamera analogica, in pieno stile anni ’90. Fa uno strano effetto vederla bambina, muoversi divertita e stupita dalla realtà circostante, sotto lo sguardo vigile e partecipe dei genitori, con un viso che, lo si capisce bene, ha già in quei lineamenti infantili la promessa di quel che sarebbe divenuto poi.

Nell’altro singolo “VBS” (che sta per “Vacation Bible School”), accompagnato da un video con suggestive animazioni dall’effetto agrodolce, rievoca i giorni sereni di un campeggio estivo organizzato dal gruppo biblico che frequentava a casa sua a Richmond, Virginia. Aveva 13 anni, nella serata finale venne organizzato una sorta di Talent Show, lei cantò una canzone degli Snow Patrol e conobbe il suo primo ragazzo. Un brano solo apparentemente disteso, che nei suoi versi finali “You said that I showed you the light/But all it did, in the end/Was make the dark feel darker than before” lascia intravedere la cupezza e le contraddizioni insite in quell’età ma anche in un’esperienza religiosa che, per quanto apprezzata, non riusciva pienamente ad essere accettata.

Oggi Lucy, che si è nel frattempo trasferita a Philadelphia, si definisce una “cristiana dal punto vista culturale”, le manca la dimensione comunitaria di quel periodo ma confessa di non credere più in Dio, per lo meno nel senso classico del termine. Ha fatto pace col suo passato, comunque. In “Home Video” è tornata a cantare di temi strettamente personali, dopo che sul precedente “Historian” (2018) aveva trattato cose come il blocco dello scrittore o il suo rapporto con la morte. Il suo esordio “No Burden”, rapido successo dovuto al passaparola e conseguente interessamento di una label importante come la Matador Records, aveva acceso i riflettori su di lei al punto tale che da farle applicare, per le canzoni successive, una sorta di filtro inconscio, partendo proprio dalla consapevolezza che i nuovi pezzi sarebbero stati attesi ed ascoltati da tante persone.

Adesso è cresciuta e parrebbe essersi liberata da certe preoccupazioni. Così come si è riconciliata col suo passato anche dal punto di vista musicale: in questo disco la chitarra acustica e il pianoforte tornano ad avere un ruolo di primo piano, dopo essere stati accantonati a favore di sonorità più elettriche e rockeggianti. C’entrava, come al solito, l’eterna questione delle immagini e delle etichette: se parli con lei anche oggi, ti dice che odia essere definita una Folksinger per cui l’uso di certi strumenti, secondo lei, avrebbe probabilmente rafforzato certi stereotipi.

Oggi, lo dicevamo, è più libera e più matura, per cui può dichiarare, come ha sempre fatto, di suonare rock, ma poi infarcire il nuovo disco di ballate come “Carthweel”, “Thumbs” (che suona dal vivo dal 2018, i suoi fan hanno addirittura creato un apposito profilo Twitter dove le chiedevano di pubblicarlo), “Going Going Gone” e “Please Stay”, arrangiamenti minimali e melodie bellissime, pezzi dove non ha timore di utilizzare il linguaggio del Folk alternativo, denotando un’evoluzione compositiva decisamente notevole.

Sarebbe dovuto uscire nell’autunno del 2020, questo disco. Ne ha scritto la maggior parte durante l’estate del 2019, subito dopo un tour di grandissimo successo ma logorante, che le aveva quasi fatto perdere la voce (io l’avevo vista al Primavera Sound e mi era piaciuta tantissimo, molto di più che nelle sue prove in studio); lo ha registrato ad agosto, a Nashville, in compagnia degli stessi musicisti con cui ha condiviso il palco e lo ha poi fatto mixare da un nome importante come Shawn Everett (tra gli altri, Haim, The Killers, Weezer).

La pandemia ha fatto il resto. Le ha dato senza dubbio l’opportunità di riposare ma non è mai bello avere un disco pronto e non poterlo buttare fuori. Adesso che finalmente ci siamo, non ci sono dubbi: “Home Video” è il disco migliore di Lucy Dacus. Lei che, nonostante la buona prova di “Historian” e del successivo Ep di cover “2019”, sembrava ancora quella meno dotata, rispetto alle colleghe e amiche Julien Baker e Phoebe Bridgers, con cui ha condiviso lo straordinario successo del progetto Boygenius.

Adesso ha per così dire rimesso le cose a posto. Queste undici canzoni così dense di memorie, che guardano al passato con nostalgia ma anche con un certo sguardo affettuoso, denotano una crescita esponenziale sul piano della scrittura e una coscienza disarmante dei propri mezzi: oggi Lucy sa gestire alla perfezione il climax emozionale nei vari brani, utilizza senza problemi il piano elettrico, sovrapponendolo alla chitarra acustica (“Christine” ne è l’esempio più fulgido, una splendida canzone di amicizia e di esperienze condivise) ma allo stesso tempo variando notevolmente le soluzioni compositive e di arrangiamento: per cui accanto ad una “First Time” dal piglio brioso, con una robusta chitarra elettrica, abbiamo anche “Brando”, che ha il mood catchy e arioso del singolo, l’autotune utilizzato con disinvoltura su “Partner in Crime”, oppure “Triple Dog Dare”, che chiude la scaletta con i suoi quasi otto minuti, racconta la storia di un’amicizia che non si è mai trasformata in amore ma che avrebbe potuto farlo, e funziona quasi come una summa di tutto quanto ascoltato finora. Un brano piuttosto scuro, che si ripete a livello melodico ma che cambia di volta in volta vestito, divenendo via via più pieno e rumoroso. Pezzo migliore della sua carriera? Non credo sia un azzardo sostenerlo.

“Home Video” dà nuovo slancio alla carriera di Lucy Dacus, ponendosi come possibile disco della consacrazione. Probabilmente non riuscirà del tutto a strapparsi l’etichetta di “ragazza triste” che proprio non le piace (alcuni episodi sono un po’ più solari ma nel complesso non c’è molta allegria qui dentro) ma senza dubbio siamo davanti ad un’artista che possiamo cominciare a definire importante, nell’ambito del genere in cui si muove. Non che prima non lo fosse, ci mancherebbe. Ma l’impressione è che qui ci siano tutti gli ingredienti per fare un salto definitivo.


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